77.000 telespettatori per me, posson bastare…?

Nei giorni scorsi, impegnata a godermi una piscina termale nella settimana del mio compleanno, ho seguito pochissimo le vicende ovali ma mi sono comunque imbattuta nell’articolo del sempre bravo Paolo Wilhelm sui 77.000 spettatori della diretta tv della finale di Top12, massimo campionato italiano di rugby.

Tanti? Pochi? Entrambe le cose allo stesso tempo, come evidenziato da Paolo. Diciamo tanti, o comunque un numero affatto male, per chi realisticamente sa di cosa si parla quando si dice “rugby italiano” ma, certamente, pochi se si immagina una diretta su Raisport come possibilità di far arrivare quella partita anche a chi non fa già parte del “circolo” del rugby.

“Il rugby italiano parla ormai solo a se stesso”, ragiona Wilhelm e, anche qui, coglie nel segno. L’esperienza quotidiana di ciascuno di noi è fatta dell’essere fans di uno sport che in Italia è “minore”, se non addirittura di nicchia: colleghi, parenti e conoscenti, salvo felici eccezioni, ignorano ogni cosa del rugby italiano e si limitano al sapere che esiste una Nazionale che perde sempre (sigh) e, se gli chiedete di citarvi dei giocatori, saranno Castrogiovanni, i Bergamasco e Lo Cicero, perché sono stati in tv (non a giocare a rugby). Arriveranno fino agli All Blacks, “quelli della Haka che vincono sempre”, ma scordatevi nomi di Tuttineri ed anche di ogni altro mito ovale.

La differenza con il calcio e con altri sport che hanno ben altra vetrina ed attenzione sui media è che io, che pure non seguo nè pallone, nè F1, nè tennis, per dirne tre, comunque ne ho una conoscenza ben più ampia rispetto a quella che gli “altri” hanno del rugby: ne sento quotidianamente notizie al tg, ne leggo sempre sull’home page di quotidiani online, vedo i campioni come testimonial di marchi e li ritrovo costantemente sulla carta stampata con articoli, foto e nomi. Il rugby? Non pervenuto.

Ripenso all’immagine di Semenzato che, alla fine della finale, con la medaglia al collo, raccoglie bottigliette di plastica e rifiuti vari dal campo e li butta in un bidone: chi l’ha vista, al di fuori di “noi”? Non è sfuggita al bravo Paolo Ricci Bitti, che le ha trovato spazio su Il Messaggero, ma io l’avrei vista benissimo anche in qualche tg e l’avrei voluta virale sui social: è un’immagine bellissima, di sport, di rispetto, di educazione, è un messaggio perfetto e “che piace”, è marketing già pronto.

Sembra banale ma, anche qui, la chiave sarebbe partire dal basso del basso: scuole e campi. Infatti, le uniche altre occasioni in cui qualcuno che mi circonda, ma che è al di fuori del mondo ovale, mi ha nominato il rugby è stato per raccontarmi che i figli lo avevano provato a scuola, grazie a Rugby Tots o alla visita di qualcuno di una società della zona: per gli sport “minori” i praticanti sono il primo e fondamentale bacino di seguito.

Nella difficoltà generale del raggiungere nuovi appassionati in chiave di spettatori, la sua parte la fa sicuramente anche l'”incoerenza” nella trasmissione delle partite: con il 6N su DMax, il Pro14 su DAZN (e sarei curiosissima di sapere i dati delle partite di Treviso e Zebre), la regular season del Top12 in streaming FIR e i suoi playoff su Raisport, seguire e tenere il filo è palesemente difficile. Io stessa, che faccio parte del mondo ovale e amo guardare il rugby, aspetto come una Bibbia il riepilogo del palinsesto ovale del week end per riuscire ad orientarmi tra partite, orari e canali: come pensare di riuscire ad accalappiare efficacemente spettatori distratti, neofiti, genitori di piccoli ruggers che si stanno avvicinando alla disciplina?

E poi… “Ma chi ci gioca lì della Nazionale?”… “Ehm… nessuno”. Già è difficile spiegare che la Serie A non è, in realtà, “la” Serie A come nel calcio, figuriamoci poi far anche capire che nel massimo campionato nazionale, finale inclusa, non ci gioca nessuno della Nazionale: diciamo che l’ordinamento del nostro rugby non aiuta, a sua volta, a “venderlo” agli “altri”.

Perché solo 77.000 persone guardano la finale del massimo campionato nazionale? Perché, al di fuori delle piccole piazze delle due squadre e degli altri appassionati (tra cui io, che l’ho attesa e guardata), nessuno sapeva della sua esistenza, come dell’intero campionato: “La Nazionale che perde sempre” (sigh) si ritaglia un po’ di spazio solo nei due mesi scarsi del 6N e, anche proprio per la cronica e tragica mancanza di risultati, la sua capacità di far aprire una breccia di curiosità e attenzione anche verso il rugby italiano, quello dei campionati e delle società, è nulla.

Ma io mi chiedo, guardando oltre le sconfitte degli Azzurri: sarebbe proprio impensabile approfittare del 6N anche per promuovere il rugby nostrano, anche solo con la presenza al Villaggio Peroni di uno stand dedicato e di giocatori delle squadre di Top12 ed anche di piccoli del minirugby, o facendo ricordare dallo speaker le partite più imminenti del massimo campionato e di Treviso e Zebre, ad esempio? E programmare costantemente visite di giocatori e tecnici di Top12 e delle celtiche presso i club delle serie minori, per promuoversi a vicenda?

Inoltre, pensando allo sport USA, dove ognuno si porta dietro fino alla tomba il nome della sua università e della high school, perché non evidenziare, nelle schede dei giocatori di Zebre e Treviso ma anche di Top12 e, naturalmente, dei nazionali, i club dove hanno giocato, incluso il primo? In un colpo solo si darebbero ai club soddisfazione, riconoscimento ed anche pubblicità ed “esistenza” e si trasmetterebbe un minimo senso di sistema.

Si punta spesso il dito sul livello non eccelso del nostro rugby “domestico” ma io credo che questo sia un fattore che viene dopo: il rugby da noi è così poco conosciuto e capito che, in ogni caso, i pruriti da tecnici di caratura mondiale tra i nuovi appassionati verrebbero dopo. È uno sport bellissimo, è coinvolgente, è particolare e piace facilmente “a pelle” ma, perché piaccia, va prima proposto, fatto conoscere e fatto vivere e non solo per un paio di mesi l’anno e in sola salsa azzurra (che è anche annacquata): si gioca da settembre a giugno, da nord a sud.

Teniamoceli cari i 77.000 che hanno guardato Calvisano-Rovigo: il rugby italiano ha bisogno di diventare più fruibile, più facile da provare, da trovare, da scoprire ed anche da guardare e da amare. È un lavoro per tutti e non credo sia più rimandabile.

Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all’improvviso il sangue di un delitto.

[parlando del Rugby]

(Richard Burton)

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Di rugby italiano, Victoria’s Secret e nostalgia: week end di play off in vista

Siamo alla vigilia del primo di alcuni week end ad altissimo tasso di rugby italiano, da seguire sui campi oppure anche da casa, grazie allo streaming. Io già pregusto Munster-Benetton (play off Pro14) domani e Petrarca-Rovigo (semifinale d’andata Top12) domenica. Mi dispiace per Reggio-Calvisano ma la storica prima partita di play off di Treviso, per quanto si presenti decisamente ardua, attira di più la mia attenzione.

Attira la mia attenzione anche questa concomitanza quasi perfetta di orari (alle 16.00 Treviso su DAZN e alle 16.30 il Top12 in streaming Raisport), mossa decisamente non azzeccata e doppiamente per uno sport deficitario per quanto riguarda l’audience: sono due partite, non venti, e si è riusciti a metterle in contemporanea??? Mon Dieu.

Il palinsesto del week end offre anche il Super Rugby degli antipodi ma, personalmente, non ne sono appassionata e, per questo, mi piacerebbe molto che Sky, che lo trasmette, lo barattasse con la Premiership inglese, ad esempio! Naturalmente, è solo un opinione personale e so che il rugby dei marziani ha i suoi appassionati, fortunati a poterselo vedere in tv, dove ormai di rugby, in Italia, se ne vede proprio poco.

A proposito di tv… Grandi annunci per il riavvicinamento tra Rai e ovale italico, per poi scoprire che, in tv, le semifinali di Top12 saranno trasmesse in differita durante la notte… Ad ogni modo, tanta grazia e mille grazie che la Rai farà le riprese e avremo comunque la diretta in streaming sul sito di Raisport.

Non sono un’amante dello streaming, probabilmente perchè ormai sono vintage ma, in quanto amante del rugby, ho dovuto trovare con le trasmissioni in rete un amichevole accordo, altrimenti non vedrei mai niente. Così, sono diventate parte dei miei sabati pomeriggio le partite di Top12, così come quelle di Treviso in Pro14 e, parecchio meno, lo ammetto, quelle delle Zebre.

A me guardare rugby piace, da matti. Amo guardarlo dal vivo, certo, che è tutta un’altra cosa, ma mi piace tanto anche guardarlo “in video” e, nonostante quanto se ne parli male, io adoro guardare il rugby italiano. Sarà forse per questo che invece non mi piace il Super Rugby? Uhm… Battute a parte, mi sono fatta l’idea che la poca inclinazione degli appassionati italiani a guardare il rugby tricolore, sia sui campi che sul divano di casa, sia dovuta ad una considerazione un po’ distorta del tutto. Ora vengo e mi spiego (cit. Commissario Montalbano).

Il livello del Top12 è il più alto del rugby nazionale e parliamo, infatti, del massimo campionato tricolore. Succede che, per i notissimi e variegati motivi, questo livello non sia altissimo, intendendo, diciamo, un paragone con Premiership e Top14, ad esempio. Benissimo, e quindi? Questo abbiamo, queste sono le nostre squadre, questi sono i nostri giocatori, queste sono le nostre partite e non fanno tutte schifo, non sono tutti scarsi e non sono tutte brutte da vedere. Certo che, se quando mi specchio in bikini, il mio unico riferimento è un Angelo di Victoria’s Secret, mi sparo ma se, invece, mi guardo senza avere in mente le Barbie, vado in spiaggia comunque felice e contenta.

Questo discorso vale anche per la Serie A, a me tanto cara: si dicono peste e corna di un campionato cadetto che, invece, è molto meno disprezzabile di quanto si pensi. E’ un campionato di giovani, di crescita, di cuore, dove la qualità non è affatto zero ma, anche qui, se lo si guarda con l’ottica di un termine di paragone fuori scala, ad esempio il Pro D2 francese, in teoria il suo omologo, è chiaro che lo si ritiene inguardabile. Cosa che, invece, non è affatto.

L’Italia non è un paese ovale, come sappiamo benissimo: il rugby è poco conosciuto, poco diffuso, pochissimo visto, è sport minore e sport di nicchia e, per questo, io penso che, se anche avessimo un Top12 della stessa qualità del Top14, i dati legati al pubblico non sarebbero enormemente diversi. Basti pensare, per una forma in scala di questo ragionamento, a Treviso: nonostante i notevoli risultati, se provate a chiedere al di fuori del mondo ovale e al di fuori dal Veneto se qualcuno sa qualcosa dei biancoverdi, riceverete i soliti sguardi interrogativi. E’ vero che, per ora, i progressi di Treviso sono ancora tutti da confermare e consolidare ma è un dato di fatto che non sia un club e che non sarebbe neppure un intero campionato a poter creare una svolta nel seguito del rugby italiano.

Allora, chi lo potrebbe fare? “Facile”: una Nazionale vincente. L’unica entità ovale italica di cui hanno sentito parlare persino i miei colleghi di lavoro, solo che l’unica cosa che sanno è che perde sempre (sigh). Una Nazionale più competitiva e vincente nel 6 Nazioni non porterebbe 20.000 persone a vedere Calvisano-Petrarca (non siamo il Galles) ma, di sicuro, creerebbe più interesse verso l’ovale, più spazio sui media, più bambini che vogliono iniziare a giocare, più spazio nelle scuole, più stimolo per il pubblico a scoprire cosa c’è dietro a quella Nazionale.

Non ho dati di pubblico su quando nel fu Super10 giocava chi veniva convocato in Nazionale, ma ricordo un rugby italiano più seguito e, ancora più importante, più organico, nel senso che la Nazionale era figlia del movimento di cui era la naturale espressione: club, campionati, filiera, percorso di crescita dei giocatori che poteva arrivare fino in vetta per chi ne aveva le qualità, massimo campionato nazionale come scalino da cui poter puntare all’Azzurro. Abbiamo perso tutto questo.

Per vedere partite di S10 ci si spostava, anche chi non viveva dove avevano sede le squadre andava a vedersi le partite, si organizzava, partiva con gli amici per andare a Calvisano, a Parma, si trovava una trattoria per un bel pranzetto e poi si andava al campo, per veder giocare “quelli della Nazionale”, quelli di cui si era fan, i big stranieri che venivano a giocare da noi, oppure l’ex compagno di squadra che aveva fatto carriera, perchè giocare in S10 allora era aver fatto carriera, e da lì si poteva sognare e raggiungere la maglia Azzurra. Andare alle partite del campionato italiano era una festa, un evento, che poi si riviveva al 6 Nazioni. Che nostalgia.

Detto tutto questo e auspicando che, prima o poi (sarebbe meglio prima), un filo rosso ricominci a percorrere e legare tutto il rugby italico, in bocca al lupo a tutte le squadre e ai giocatori in campo nei vari play off, barrage e spareggi in programma: may the force be with you! (Semicit.)

Agli appassionati invece ribadisco il suggerimento di guardarsi e godersi le partite, le emozioni, il gioco e il rugby di casa nostra: non sono gnocche solo gli Angeli!

Rugby, gioco da psiche cubista, deliberatamente si scelsero un pallone ovale, cioè imprevedibile. (Alessandro Baricco)

 

(Nella foto, Behati Prinsloo, signora Levine, Angelo di Victoria’s Secret)

Rugby che mi piace: I Medicei

Dopo Mogliano (qui) e dopo un altro raro sabato casalingo nel quale mi sono guardata in tutto relax il Top12 (fu Eccellenza, fu Super10), la mia attenzione è stata attirata da un’altra squadra: i Medicei. Non solo da oggi, a dire il vero!

La partita che mi sono guardata, tra le varie di giornata (1^ di ritorno, per la cronaca), è stata Reggio Emilia (o Valorugby, come si chiama ora) vs I Medicei (Toscana Aeroporti Firenze): la (sorprendente) terza in classifica contro la sesta. Di sicuro non ho sbagliato la scelta: rugby vero, rugby intenso, rugby “di budella”, come piace a me. Ed in una specie di freezer, con la neve ammucchiata attorno al campo.

Contro Reggio, i Medicei, alla fine sconfitti in pieno recupero per 10-6 da una meta sul palo segnata dal Sig. Carlo Festuccia (anni 38, aquilano DOP, carriera internazionale di grandissimo spessore, tallonatore con le cosce più grandi del Gran Sasso e oggi allenatore del pack emiliano), hanno lottato come leoni e messo in enorme difficoltà un avversario arrivato in alto in classifica a suon di spettacolo e mete: primo tempo 3-6, secondo tempo con lo stesso parziale fino all’assalto finale degli emiliani, concluso dal colpo d’esperienza di Festuccia. Che partita, che bellezza!

I Medicei mi piacciono e me li sento vicini per diversi motivi: li ho incrociati in serie A (considerando il Firenze 1931, per un decennio!), apprezzo molto il progetto da cui sono nati e come sta crescendo, mi piace lo spirito di questa squadra ma, soprattutto, sono da anni una grandissima fan di coach Pasquale Presutti, che adoro in modo assoluto!

Lui e la sua idea di rugby sono vicinissimi a me, al rugby che amo, a quello che sento più mio. L’impronta Pro Recco Rugby mi porta lì: amore per la mischia, pochi fronzoli, spirito di gruppo, tanto lavoro e poche chiacchiere. Il buon Pasquale, aquilano di Trasacco, classe 1950, pluri-scudettato, uomo intelligente, allenatore tosto e con una conoscenza del gioco dell’ovale vasta da qui a Marte, è il Maestro perfetto di tutto questo.

Terminata la sua esperienza con le Fiamme Oro, Presutti era approdato (stagione 2015/2016) ai neonati Medicei, nuovo sodalizio fiorentino nato dalle ceneri del Firenze 1931 e del titolo sportivo del (fu) Prato: il primo era retrocesso in B ma ci ha messo ossatura e struttura, il secondo, retrocesso dall’Eccellenza e in via di sparizione, ha dato alla franchigia gigliata il posto in serie A.

La scelta di Presutti come coach e director of rugby per un nuovo ed ambizioso progetto e, di conseguenza, anche l’investimento economico su un tecnico di altissimo profilo ma pronto a rimettersi in gioco da una categoria inferiore è stata, secondo me, la mossa più importante fatta dai Medicei. Infatti, con tre anni di orizzonte per salire in Eccellenza, ce l’hanno fatta in due: alla fine di quella prima stagione 2015/2016 i toscani mancarono i play off e fu promosso proprio il Reggio (chissà chi perse quella finale…) ma, l’anno successivo, toccò ai biancorossi essere promossi e passare così alla fase successiva del progetto.

Presutti, quattro scudetti e una Coppa Italia con il Petrarca da giocatore e un titolo italiano da allenatore, una semifinale e un Trofeo Eccellenza alla guida delle Fiamme Oro, è uno che, quando lo incontri sui campi da rugby, ti saluta con affetto, ti sorride cordiale anche se ha le palle girate perché ha perso (e gli girano parecchio quando perde!), ti ringrazia con il suo inconfondibile vocione e sembra sempre stupito se gli fai dei complimenti, che gira subito alla squadra. Ho già detto che lo adoro?

“Il rugby è un gioco semplice: basta passarsi il pallone e andare in meta”. (Pasquale Presutti. Frase fedelmente riportata da qualcuno a cui l’ha detta!)

(Foto principale: dopo la vittoria sul Petrarca, di Daniele Bettazzi, che ringrazio moltissimo per la disponibilità. Foto di gioco: da Valorugby-Medicei del 26/01/2019, grazie a I Medicei e all’autrice Cristina Marconcini per FirenzeViolaSuperSport. Carriera: da wikipedia)

Scusi, chi ha fatto… calcio???

Domenica 13 gennaio sarei dovuta arrivare al campo da rugby di Recco giusto in tempo per svolgere le mie funzioni di addetta stampa alla partita di serie A tra Pro Recco Rugby e Parabiago ma, a causa di un volo in ritardo, non ce l’ho fatta. Grazie ad un efficientissimo e preciso dirigente, però, ho ricevuto via whatsapp (sia lodata la tecnologia!) gli aggiornamenti necessari per scrivere anche il tabellino dell’incontro.

Dopo pochi minuti di gioco segna Parabiago e chiedo, sempre via Whatsapp, il numero di maglia del piazzatore (avevo già ricevuto le distinte di gara, dunque mi bastavano i numeri di maglia per risalire ai nomi degli avversari). Ricevo “4” e penso che il mio “inviato” abbia sbagliato a digitare, quindi insisto “scusa, non ho capito chi calcia” e ancora ricevo “4” e io “il 4?” con faccina emoticon perplessa, e ricevo “già!”. Per completezza di informazione, il seconda linea “kicker” in questione è Dario Maggioni, appunto del Parabiago (tra le foto in fondo al testo).

Questo piccolo siparietto in chat, unito alla particolarità di trovare un uomo di mischia che piazza, mi ha dato lo spunto per queste righe. Ringrazio moltissimo gli utenti del gruppo Facebook “Piloni e altre creature leggendarie”, ai quali mi sono rivolta per avere un po’ di materiale su cui scrivere!

Il più citato, tra i mischiaioli noti per avere anche il piedino buono, è sicuramente John Eales, soprannominato Mr Nobody, cioè Sig. Nessuno, perchè Nessuno è perfetto. Seconda linea di Brisbane, classe 1970, dalle sconfinate qualità tecniche e caratteriali, considerato il miglior australiano della storia nel suo ruolo e due volte campione del mondo (1991 e 1999). Qui il video di un suo piazzato decisivo per la Bledisloe Cup del 2000.

L’altro nome che viene subito alla mente è quello di Zinzan Brooke, All Black classe 1965, campione del mondo nel 1987, numero 8 tra i più conosciuti della storia ovale e ritenuto il migliore ad aver vestito la maglia dei Neri. Dotato di velocità e piede quasi da trequarti, in carriera ha messo a segno tre drop, di cui uno durante la Coppa del Mondo del 1995 (qui il video), e ha trasformato una meta. Ancora oggi, quando un uomo di mischia, soprattutto un terza linea, tenta un drop e magari lo segna pure, Zinzan Brooke è l’immediato riferimento (come successo anche in occasione di un drop messo dentro da Parisse con la maglia dello Stade Français anni fa, con i telecronisti subito a citare il campione neozelandese. Qui il video).

Grazie al contributo degli utenti del gruppo ho scoperto che anche il riccioluto pilone gallese Adam Jones non ha mai disdegnato di usare i piedi! Qui qualche clip. Restando in Galles, anche Allan Martin, classe 1948, è noto per essere un avanti assai prolifico dalla piazzola, anche per la sua Nazionale.

In Italia, il nome che è stato citato è quello ormai storico, e quasi leggendario, di Mario “Maci” Battaglini, IL simbolo del rugby rodigino. Il suo ruolo principale era il flanker ma ha giocato anche seconda linea e, addirittura, mediano di apertura. Tra i primi italiani ad andare a giocare all’estero, in Francia venne soprannominato “Il re dei marcatori”, proprio in virtù della sua precisione nei calci piazzati, anche da lunghissima distanza. Nato nel 1919, durante la Seconda Guerra Mondiale partecipò alla Campagna di Russia e, al ritorno dal fronte, riprese subito a giocare a rugby. Morì nel 1971, a soli 51 anni, in seguito alle ferite riportate dopo essere stato investito mentre andava in bicicletta, ed è diventato leggenda.

In mezzo ai vari nomi di avanti italiani di ogni categoria che non disdegnano l’uso del piede (e ringrazio tutti per averli suggeriti!) spiccano, nel massimo campionato nazionale ed anche oltre, il versatile Gianmarco “Mammuth” Duca (Fiamme Oro e ora Lazio), suo fratello Davide (ai tempi del San Gregorio nella fu Eccellenza), Matteo Cornelli, giovane sempre Fiamme Oro, e la Zebra Oliviero Fabiani.

Per quanto riguarda il mondo ovale femminile, dalla mia amica Cinzia ho ricevuto la segnalazione del nome di Stefania Scaldaferro, pilone del Vicenza e della Nazionale di qualche anno fa. Quasi un cecchino, ma le serviva la musica per concentrarsi e, siccome sui campi ancora non si usava metterla, le compagne, quando lei andava sulla piazzola, dovevano tenerle il pallone e cantare una determinata canzone dei Simply Red! E funzionava bene, visto che un suo calcio ha anche dato alla sua squadra una storica vittoria contro Treviso!

Tra le ragazze cito volentieri anche Barbara Casasola, pilone del Frascati che trasforma con grande classe, che ha segnalato se stessa in un commento al mio post di ricerca nel gruppo “Piloni e altre creature leggendarie” (foto qui sotto)!

Chiudo con le parole di Diego, prima linea della provincia romana, tra i fondatori del rugby ad Aprilia, che ha commentato il post ma non fa parte degli avanti che calciano: “io, pilone, sono cresciuto sportivamente con l’idea e l’imposizione del mio coach di non avere i piedi…”!

 

Coppa Italia, rugby 7s e… peli di gatto

Stamattina ho letto, sul blog ovale “Il Nero il rugby”, uno scritto che poneva l’accento sulla mancanza di appeal del Continental Shield e della Coppa Italia, entrambi disputati nel week end appena passato. Della “terza coppa europea” so pochissimo, quindi lascio analisi ed opinioni ad altri e mi concentro sulla Coppa Italia, fu Trofeo Eccellenza.

Coinvolge 8 squadre del Top12 (fu Eccellenza) che si incontrano suddivise in due gironi all’italiana da 4, creando un palese doppione del campionato che, obiettivamente, non sembra servire a nessuno. Le altre quattro squadre, quelle ammesse alle semifinali di campionato nella stagione precedente, giocano lo Shield.

Insomma, quando si gioca questa Coppa Italia sembra una giornata di campionato ma non lo è e sembra avere l’unico scopo di tappare i buchi di calendario per chi non è impegnato in altra competizione. Peraltro, per qualche ignoto motivo, anche quando non esisteva lo Shield e dopo che nessuna compagine di Eccellenza partecipava più a coppe europee, sostituita da Treviso e Zebre (o chi per esse) in versione Celtica, il campionato si è sempre fermato nei week end delle coppe.

In questo panorama si innesta una domanda che io mi faccio ormai da qualche annetto: perchè la Coppa Italia, invece di questa cosa inutile che è ora, non viene sfruttata per giocare a 7s? E, davvero, non riesco a trovare una risposta convincente.

Il 7s deve far venire proprio tanto prurito e lacrimare gli occhi, perchè, nonostante sia specialità olimpica, in terra italica anche una competizione che sembrerebbe fatta apposta per far misurare i giocatori con la disciplina e far provare sia a loro che al pubblico una vera competizione di 7s, peraltro per club esistenti e non selezioni o altro, viene invece mantenuta a 15, creando solo un noioso doppione del campionato del quale tappa i buchi di calendario.

Federazioni ovali di ogni dove, incluse isole tropicali e svariate Nazioni dove il rugby esiste a malapena, quando il 7s è diventato olimpico si sono lanciate nella sua promozione e fatto sforzi per mettere su squadre e partecipare a tornei e qualificazioni, tanto che, a Rio 2016, olimpiade d’ingresso del 7s, hanno partecipato alla competizione, dopo essersi qualificate, sì Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Sudafrica, Argentina, Australia, Francia e Figi (che ha poi vinto, davanti a GB e SA), ma anche Kenya, Giappone, Stati Uniti (sempre ben sintonizzati quando c’è da guadagnare con lo sport) e Spagna (!) nel torneo maschile e NZL, AUS (che ha vinto, davanti a NZL e Canada), GB, FRA e Colombia (!), Canada, Kenya, Giappone, USA, Figi e Spagna (anche qui!) in quello femminile.

Olimpiadi = attenzione = diffusione = pubblicità = sponsor = soldi. Inoltre, il 7s è una specialità ovale di più facile accesso anche, ad esempio, nelle scuole, ed anche di più facile fruizione da parte di un pubblico non specializzato. Non sembra difficile, eppure…

… eppure, nel 2020 arriva un’altra Olimpiade ma il 7s continua a sembrare un allergene peggio del pelo di gatto. Miao.