Sconfitti e festanti: le partite dell’Italrugby

Sconfitti e festanti: il paradosso delle partite dell’Italrugby, con il contorno che oscura del tutto l’evento. Riflessioni da inviata sul campo per i Pirati del rugby, sul cui sito www.rugby-pirates.com compare questo stesso scritto, insieme a molti altri contenuti.

Non è facilissimo spiegare cosa sia davvero una partita dell’Italrugby all’Olimpico. Non lo è perché si tratta di cercare di spiegare il motivo per cui decine di migliaia di persone decidono di andare a vedere una partita di una squadra che vince praticamente ad ogni passaggio di cometa.


Facendo però un giro attorno allo stadio già da tre ore prima dell’incontro, si inizia ad intuire qualcosa, e si formulano sia pensieri molto positivi che un po’ amari.


Una partita di rugby dell’Italia è, fondamentalmente, una festa: nessun problema di sicurezza, birra, amici, sorrisi, musica, foto e abbracci con i tifosi avversari, il clima di Roma solitamente dolce (neve del 2012 a parte!), i ritrovi con amici di ogni parte d’Italia, un divertimento sicuro anche per i bambini, e così via.


Bene, tutto bello e positivo, ma la partita dove si colloca? Ecco, qui nasce il problema. Un problema che, però al tempo stesso, è diventato una forza ed anche un salvagente. La partita è solo un accessorio, è in secondo piano rispetto alla festa.


Questo fa sì che, con buona pace dei tanti che non riescono proprio a capire come sia possibile, una Nazionale che perde un gran numero di partite e che rimedia anche figure non proprio bellissime, riesca ancora a portare allo stadio un gran numero di persone. E dire che anche lo stadio in questione non è proprio amatissimo: la visuale non è granché, è fin troppo grande e dispersivo, non è uno stadio “da rugby”.


Però è diventato, dal 2012 ad oggi, un perfetto stadio “da festa”: difficile eguagliare le statue dello Stadio dei Marmi e il Foro Italico come cornice per il Villaggio del Terzo Tempo, per il prepartita di festa dei tifosi di casa ed ospiti.


È, per molti versi, una sorta di miracolo ma, al contempo, è qualcosa di estremamente negativo sportivamente parlando, perché non si tratta di partite di beneficenza ma di incontri di un importantissimo torneo internazionale, dove i risultati contano eccome.


E il risultato, anche al termine di questa Italia-Scozia, è stato francamente deprimente, così come la partita: indubbiamente brutta la seconda e decisamente orrido il primo (0-17), ma la festa non è stata intaccata minimamente, con i concerto dei The Kolors, la birra, le risate, gli amici, la bellezza di Roma, il clima mite, etc etc.


54.349 spettatori (numero ufficiale) che, a parte qualcuno, hanno istantaneamente archiviato la brutta sconfitta come un qualcosa di abituale/inevitabile ed un dato del tutto trascurabile nella dinamica della giornata di festa. Peccato che, in teoria, l’evento del giorno fosse proprio la partita, un incontro del 6 Nazioni, un appuntamento sportivamente importantissimo.


Franco Smith, non contato tra i 54.349 ma, purtroppo per lui, comunque presente, la festa, invece, proprio non sa dove sta di casa: arriva in sala stampa scuro in volto e con la faccia di uno che vorrebbe essere ovunque tranne che lì. Cerca di schivare le facili bordate dei giornalisti e lo fa provando ad addolcire la pillola, difendendo a spada tratta la sua squadra nonostante una prestazione francamente inguardabile. Si può dire che siamo un po’ stufi di dichiarazioni come queste?


Anche Capitan Bigi in sala stampa aveva l’espressione di uno che avrebbe preferito essere seduto su un nido si formiche rosse piuttosto che lì dove stava. Alla domanda sul breakdown ha risposto com sincerità, ammettendo le responsabilità azzurre su una fase di gioco che è stata resa troppo redditizia per la Scozia.


Facciamo che preghiamo che il miracolo della festa che se ne frega delle partite duri ancora il più a lungo possibile.

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Ci credevamo tanto, ed era bellissimo: i 10 anni di ITA-NZL

Pochi giorni fa è caduto il decimo anniversario della storica partita tra Italia e All Blacks giocata a San Siro: era, appunto, il 14 novembre 2009.

Per la prima volta, San Siro, la Scala del calcio, ospitò una partita di rugby, e lo fece davvero in grande stile: oltre 80.000 spettatori provenienti da ogni parte d’Italia per vivere un vero Evento sportivo e mediatico.

Organizzava RCS, insomma, La Gazzetta dello Sport, che creò attorno alla partita un’attenzione mediatica mai più vista in seguito per l’Italrugby, anche perché si interruppe poi la collaborazione tra la FIR e il colosso editoriale.

Finì 20-6, con l’Italia che fu capace, oltre che di contenere il passivo in un modo mai accaduto nè prima nè dopo, di mettere sotto clamorosamente i Neri in mischia chiusa, non ottenendo però una sacrosanta meta di punizione (che allora si chiamava ancora meta tecnica) che avrebbe potuto svoltare del tutto la partita.

Era ancora un rugby italiano che ci credeva, che aveva molte meno sconfitte sul groppone, che ancora sembrava in grado di restare sul treno di opportunità e crescita portato dall’ingresso nel 6 Nazioni. Un rugby in grado di attirare la gente, di creare entusiasmo, di far intravedere tante buone cose possibili e fattibili, una maglia Azzurra capace di piacere, fino ad arrivare, tre anni dopo, a passare dal Flaminio, ritenuto ormai troppo piccolo, all’Olimpico, per le partite del Torneo.

Ora, dieci anni dopo, ne sembrano passati cento, e non certo in positivo. Dieci anni con una valanga di sconfitte, miliardi di polemiche, milioni spesi senza risultati in cambio, il movimento interno disintegrato insieme ai suoi campionati, un interesse mediatico ed una capacità di crearlo prossimi allo zero.

Il rugby italiano e i suoi tifosi e appassionati, dopo aver resistito fino allo stremo, hanno smesso di sognare, e l’anniversario di questa partita, che riporta alla mente come ci sentivamo invece allora, ce lo ricorda in modo letale.

Ecco, la cosa più grave di questi dieci anni, secondo me, è questa.

A San Siro, quel giorno, io c’ero, con amici di ogni parte d’Italia, con altre 80.000 persone felici di essere lì per partecipare ad un Evento, per tifare, per crederci.

Ci credevamo tanto, ed era bellissimo.

Italia-Francia: non vincere…

Qualche giorno fa mi chiedevo (qui) se battere la peggior Francia del millennio e conquistare all’ultima giornata del 6 Nazioni 2019 una vittoria nel torneo, dopo ventuno sconfitte di seguito, sarebbe stato un bene per l’Italrugby. Il problema mi è stato tolto dagli Azzurri stessi, capaci di perdere una partita che andava solo vinta, contro un avversario imbarazzante che ben difficilmente ci ricapiterà mai tanto disastrato, in 80 minuti inguardabili, commettendo errori imperdonabili ed anche incredibili.

Italia-Francia, grigia come il cielo di Roma, è finita 14-25. L’Italia, con più possesso e più occasioni, ha perso senza prendere neanche un bonus e chiudendo quindi a zero il suo 6 Nazioni: cucchiaio di legno e whitewash, un’altra volta.

Quindi, come si possono ascoltare gli ormai sempre più vuoti “stiamo crescendo”? Che uno magari per un po’ ci crede anche, porta pazienza (virtù che certo non manca, insieme ad un evidente masochismo, agli appassionati italici di palla ovale), ma poi arriva anche il momento in cui il disco va cambiato, perché ormai il commento più gentile agli “stiamo crescendo” è “e meno male…”, mentre gli altri sono irriferibili.

Si è perso dunque e, mentre a Roma si scuote la testa dicendo “non capisco come abbiamo perso”, a Parigi ci si chiede come diavolo sia stato possibile vincere non facendo quasi niente: “da che punto guardi il mondo tutto dipende” (cit.).

E ora? Il programma dice che, da metà settembre a inizio novembre, in Giappone c’è la RWC 2019, dove gli Azzurri, mai andati oltre il primo turno, sono attesi da un girone dantesco più che eliminatorio: Italia, Canada e Namibia con… Nuova Zelanda e Sudafrica. Quante ne passano? Ovviamente, due. Iniziare ad augurare fin da ora cospicui malesseri “influenzali” agli Springboks forse dovrebbe essere parte integrante della preparazione azzurra all’impegno, giusto per poterci almeno provare.

Dopo lo scempio di Italia-Francia, l’ultima giornata del 6 Nazioni ha rifatto gli occhi e il cuore a tutti con Galles-Irlanda e Inghilterra-Scozia: i Dragoni, guidati dal sempre più immenso Capitano Alun Wyn Jones, che ha iniziato la partita mettendo la sua felpa ad un intirizzito bambino durante gli inni nazionali, hanno triturato l’Irlanda (25-7) e portato a casa trofeo e grande slam (5 vittorie su 5), gli scozzesi (quelli del mai abbastanza ricordato e citato “sì ma la Scozia cosa porta?”), fino a pochi anni fa “la Scozia la battiamo”, sono usciti da Twickenham con un mostruoso 38-38 (da 31-0 per gli inglesi) e la Calcutta Cup sottobraccio.

Noi dove siamo stati, mentre la Scozia che battevamo è diventata quel che è ora? E dove siamo ora? In un posto che non è Glasgow, diciamo (altra cit.)!

Purtroppo, si è confermata in pieno la sensazione che già aleggiava quando il torneo stava per iniziare (qui): un 5+1 Nazioni, con un’Italia che, come se non bastasse già tutto il resto, sembra diventata incapace di vincere anche quando potrebbe farlo.

Facciamo che magari sia ora di iniziare a cambiare sul serio qualcosa, dalla base fino alla punta?

Chiudo con una mia opinione, che so mi attirerà gli strali di chi “il Capitano non si tocca”: se fossi in Parisse, il titolo di Man of the Match di ieri mi avrebbe offeso. Per i giusti riconoscimenti alla carriera ci sarà tempo, ma un MoM al termine di una delle sue non certo migliori partite e con la sua squadra sconfitta non lo trovo per niente “un bel regalo”.

Un pensiero allo sfortunatissimo Leo Ghiraldini, la cui ultima partita in carriera al 6N è finita troppo presto e troppo male e, quasi sicuramente, gli toglie anche l’ultimo Mondiale.

Ed un pensiero, naturalmente, ad un altro degli uomini in campo ieri e che a Roma ha anche lui salutato il 6 Nazioni: il mio adorato Nigel Owens, la cui classe 1971, purtroppo, è implacabile anche per il più bravo, carismatico e amato arbitro di rugby del millennio. Non consiglierò mai abbastanza a chiunque di leggere “Half Time”, la sua straordinaria autobiografia!

“Un albero il cui tronco si può a malapena abbracciare nasce da un minuscolo germoglio.
Una torre alta nove piani incomincia con un mucchietto di terra.
Un lungo viaggio di mille miglia si comincia col muovere un piede”. (Lao Tse)

6 Nazioni, giornata 3: mix-and-match

6 Nazioni 2019, giornata 3, Italia-Irlanda all’Olimpico di Roma (16-26).

Mix-and-match dal desk dell’area media e dalla tribuna stampa dello stadio:

  1. Sono sbarcati i giapponesi!!!! Si palesa al desk un ragazzo (italiano) visibilmente poco esperto del luogo e delle modalità stampa della giornata: ci chiede informazioni sui tempi e gli orari e gli interessa la mixed zone, dove si fanno le interviste al volo ai giocatori quando escono dagli spogliatoi dopo essersi cambiati a fine partita. Gli diamo tutte le info, lui si gira e inizia, in un giapponese che ci ha lasciate tutte di stucco per musicalità, a tradurre le informazioni per un ragazzino che sembrava uscito da un cartone animato giappo e ad un uomo, sempre giapponese, brizzolato ma con i capelli tinti di viola, che somigliava pari pari ad un personaggio dei film di Miyazaki: ascoltavo incantata l’interprete e non riuscivo a smettere di guardare questo strepitoso tizio! Erano di una tv nipponica, ovviamente: RWC 2019 is in the air!
  2. Poco dopo il fischio finale vado al bagno delle signore (cit.) dell’area media e lo trovo letteralmente invaso di signore e signorine Irish che si tirano a lucido, contendendosi gli specchi ed evitando di calpestare le trousse di variegate attrezzature da trucco e parrucco, raggiungendo il livello di stucco e cazzuola! Cena di gala was in the air (and so much lacca was in the air too!)!
  3. Dopo essere andata in un altro bagno delle signore, ho ritrovato al desk il giapponesino che, forse non convinto delle spiegazioni precedenti, era tornato a chiedere conferma, coraggiosamente in inglese e senza l’interprete, dove fosse la mixed zone e a che ora aprisse: l’ho accompagnato, gli ho fatto vedere la porta e spiegato quando avrebbe aperto. Mi ha detto di aver capito e ringraziato per un minuto di seguito: chissà se poi ‘ste interviste flash per i tifosi del sol levante sono davvero riusciti a farle!
  4. Mi sono trovata davanti l’arbitro Tomò diventato biondo, e gli dona anche!
  5. Alla faccia delle Irish che hanno invaso il bagno per il restauro pesante, la mia collega volontaria Viola registra dei tutorial di trucco rapido e senza specchio: la classe delle donne intraprendenti!
  6. Quando, mentre stavo dando informazioni in inglese ad un giornalista, ho visto avvicinarsi il mitico Ian, Aussie da decenni in Italia che, tra le altre cose, insegna inglese, mi sono istantaneamente sentita come se fossi tornata a scuola: “Ian, meno male che non mi hai sentito parlare inglese, se no mi davi subito della capra!” – “Ah, parlavi inglese? Non mi sembrava!” (simpatico!!!) – “Comunque, in inglese non si usa goat, ma donkey!”. Grazie Ian!
  7. I giornalisti hanno applaudito O’Shea e Ghiraldini quando sono entrati in sala stampa per la conferenza di rito del dopo partita. Bello, spontaneo e sanguigno, ma anche amaramente sintomatico di quanto agli appassionati e ai tifosi italici manchino ormai non solo le vittorie ma anche delle belle quasi-vittorie. Un punto di ripartenza? Difficile, viste le partite mancanti e il palese divario complessivo rispetto alle altre cinque squadre ma, dopo troppe sconfitte assai fosche, ad oggi qualche altra “sconfitta onorevole”, che nessuno pensava mai di poter rimpiangere, farebbe già un gran bene.
  8. Lo stadio vuoto al mattino mi mette sempre i brividi, così come Ireland’s Call.
  9. Giustamente, si è parlato tanto della semplicemente strepitosa Nazionale femminile, vittoriosa di misura sulle Irish e in piena corsa per poter vincere il 6 Nazioni: women do it better! Hashtag donneintraprendenti e donnevincenti.

Il rumore di chi non c’è

38.700: è questo il numero che fa più rumore, dopo Italia-Galles, seconda giornata del 6 Nazioni 2019. Un numero di cui si parla molto di più rispetto al punteggio, di solito tema centrale di una partita di qualsiasi sport.

Italia-Galles è finita 15-26 e, all’Olimpico di Roma, gli spettatori sono stati 38.700, di cui circa 5.000 gallesi, calati nella Capitale per un week end di dolce vita e dolce clima: è il dato di pubblico più basso da quando l’Italia del rugby ha iniziato a giocare in questo stadio, nel 2012. Da allora, troppe sconfitte: c’è poco da fare.

La fine di quello che era stato definito, a ragione, come “miracolo”, cioè il grande seguito della Nazionale ovale nonostante i non esaltanti risultati, si era vista già a novembre durante i test match, con numeri di pubblico in calo e con l’atmosfera, oltre al risultato, di ITA-NZL.

Il 6 Nazioni è un grande evento sportivo, che investe in egual misura l’aspetto sportivo e quello di marketing, ancora di più in Italia, dove l’ovale nazionale, inteso come campionati e squadre, è del tutto ignoto ai più: una volta l’anno, su qualche giornale e sito non specializzato e in alcuni spot pubblicitari, spuntano nozioni ed immagini di rugby, con il trionfale annuncio degli “Azzurri in campo nel 6 Nazioni” e relativo corollario di terzo tempo, birra, tutti amici, etc etc.

Benissimo. Ma… “tanto l’Italia non vince mai!” sentito da colleghi, amici, tassisti, parenti e conoscenti è un qualcosa che tutti conosciamo fin troppo bene.

Il 6 Nazioni diventa dunque un’arma a doppio taglio: si vende come evento di grande rilievo, quale è, ma questo fa anche sì che, in quanto unica “cosa” di rugby che esce dalla ristretta cerchia di praticanti e appassionati abituali, un pubblico più vasto ne senta parlare ma, quello di cui sente parlare durante quel mese e mezzo ogni anno, sono tante sconfitte.

E così, alla fine, è successo: solo 38.700 persone, circa 33.700 al netto dei gallesi in trasferta. Perché sì il terzo tempo, la festa, le foto con i tifosi avversari tutti colorati e pittoreschi, il week end a Roma e tutto quanto, ma uno che va allo stadio vorrebbe anche veder vincere. Anzi, ci va se spera di poter vedere vincere. Soprattutto se è uno spettatore occasionale, uno che non segue il rugby con costanza ma passa con piacere un pomeriggio allo stadio, a vedere qualcosa che non sia calcio, quando c’è il 6 Nazioni.

Ecco, qui si è rotto il giocattolo, insieme al miracolo: tanta gente ha perso le speranze di vedere l’Italia vincere, ha imparato a dare per scontato che l’Italia perderà. E se ne sta a casa.

L’erosione ha infine raggiunto anche la pazienza e la passione di chi il rugby lo vive tutto l’anno e tutta la vita e, così, anche tantissimi che non avevano e non avrebbero mai mancato l’appuntamento, si guardano le partite dell’Italia in tv, comodi, gratis e incazzandosi magari un filino meno. E questa è la cosa veramente drammatica.

Il Flaminio era diventato piccolo, ma l’Olimpico ora è diventato enorme.

Tutto questo non è aiutato, come viene sempre più messo in evidenza, neanche dall’impianto: lo stadio ha la pista per l’atletica e le curve che si sviluppano “in orizzontale”, lontanissime dal campo. Insomma, la visuale non è ideale e arriva fino ad essere pessima in curva.

Citatissimi, come altro fattore importante nella questione dei 38.700 spettatori, sono i prezzi dei biglietti: vedere l’Italia del rugby non è economico e i prezzi sembrano inevitabilmente diventare giganteschi con il peso delle sconfitte, e con i problemi di visuale di cui sopra.

Nelle altre cinque nazioni i biglietti costano, a dire il vero, assai di più, ma gli stadi sono migliori, alcuni sono dei veri templi del rugby (insomma, dei Maracanà dell’ovale) e lì si può contare su delle fondamenta di tradizione, diffusione e organicità (intesa come il percepire un rugby nazionale nel suo “tutto”) ben diverse e su una percezione completamente diversa dell’evento-partita di rugby. Chi non ha mai detto o non ha mai sentito dire “vorrei tanto andare a vedere una partita in Galles o in Irlanda o in Scozia, ma non contro l’Italia!” oppure “voglio andare a Twickenham!”?

Che fare? La tradizione si costruisce in decenni e secoli, ma le vittorie, con cui si fa anche la tradizione, vanno costruite giorno dopo giorno e partendo da assai lontano dal prato e dal terzo tempo dell’Olimpico.

Il rugby da noi è di fatto uno sport minore, mentre il 6 Nazioni è un torneo maggiore, nato per quattro, diventato per cinque e poi allargato a sei. Mai come quest’anno, ci sembra di guardare un 5+1 Nazioni, e fa malissimo: 30.000 seggiolini vuoti lo gridano forte.

Le donne sono convinte che partorire sia il dolore più intenso solo perché non hanno mai visto perdere la loro squadra nel Sei Nazioni. (Detto inglese)