Week end lungo a NY? Oh yeah!

Possono uscire fuori molte cose da una chiacchierata tra amiche durante una passeggiata primaverile di domenica pomeriggio, tra cui l’idea di un week end lungo da qualche parte, dopo più di due anni senza grandi viaggi. Da qualche parte, ma dove? Ma a New York, ovviamente!

Quindi, Emy e Babi tutte soddisfatte decidono che il fine settimana lungo di San Giovanni (che è Santo Patrono di Genova e nel 2022 cade di venerdì, il 24 giugno) è perfetto e si fanno fare un preventivo, con tutte le assicurazioni del mondo per mettersi al riparo da epidemie, guerre e qualsiasi altro possibile imprevisto o sciagura.

Lo diciamo anche a quell’altra? Ma non vorrà venire… E invece Heidi, contro ogni pronostico, si unisce al gruppo, decidendo di sfidare per una volta i grattacieli invece delle vette alpine! E quindi siamo in tre, un nuovo preventivo e via, si prenota!

Il risultato è stato un volo di andata il giovedì mattina (diretto Delta da Malpensa) e un volo di ritorno la domenica sera dal JFK (diretto operato da ITA) e quindi tre notti nella Grande Mela, in un albergo centralissimo per ottimizzare il poco tempo.

Quindi un week end lungo a New York si può fare? Assolutamente sì, anche se praticamente tutti ci hanno preso per matte per così pochi giorni oltreoceano! E’ ovvio che abbiamo visto e fatto un infinitesimo di quello che si può vedere e fare a NYC ma va anche detto che comunque per fare tutto non basterebbero neanche mesi.

Io sono una grande fan dell’app “Get Your Guide” che anche stavolta è stata utilissima per prenotare diverse attività in un attimo e tutte rimborsabili fino al giorno prima: con poco tempo a disposizione abbiamo dovuto scremare, decidere e programmare e siamo partite con già in mano un minimo di piano d’azione.

Giovedì: dopo volo in ritardo, un’ora di immigration e più di un’ora di taxi causa traffico monstre, abbiamo fatto i nostri primi tredici km newyorkesi a piedi e, nel Greenwich Village, abbiamo fatto il pellegrinaggio al portone di casa di Carrie Bradshaw. N.B. durante il volo di andata mi ero riguardata sia il film di “Sex and the City” che “Il diavolo veste Prada”, giusto per entrare nell’atmosfera giusta. Di ritorno verso l’albergo (in taxi, dopo un primo test di “chiamata con la manina”, con tassista di origini italiane e figlioletto di nome Vincenzo) io e la Bionda (Babi) abbiamo portato Heidi a prendersi il primo schiaffo di luci, gente e macello a Times Square: difficile spiegarlo a chi non c’è mai stato, ma è proprio uno schiaffo!

Venerdì: avevamo la prenotazione per l’ascensore supersonico del nuovissimo grattacielo One Vanderbilt e relativa esperienza panoramica e multisensoriale ai piani 91, 92 e 93. Solo che il jet lag ci ha fatto uscire dall’albergo prima delle galline, mentre in giro c’erano giusto i camion della spazzatura, a stelle e strisce anche loro, e così ci siamo messe a passeggiare verso Rockefeller Center, Trump Tower e Central Park, in un’esplosione di arcobaleni per il mese del Pride. Inutile dire che il panorama dal grattacielo è pazzesco e idem l’ascensore, che fa 91 piani in tipo venti secondi: hanno pensato l’esperienza perchè sia diversa rispetto ai classici Empire State Building e Top of the Rock e quindi largo a specchi, trasparenze e palloncini argentati, il tutto circondato da una vista strepitosa a 360 gradi.

Sempre venerdì: uno dei capisaldi quando abbiamo pensato alle cose da fare era stato fin da subito il musical a Broadway e quindi eccoci al Neil Simon Theatre per “MJ”, il nuovo musical sulla carriera di Michael Jackson: livello ovviamente stellare! Prima di andare a teatro abbiamo provato l’ebrezza di essere rimbalzate da un ristorante alle 18.15: ci toccherà tornare di nuovo da quelle parti per provare la cucina di John’s, dove Babi era stata nella sua prima volta a NY.

Sabato: il jet lag insiste e quindi di nuovo a spasso presto: manina taxi ormai pro su una Fifth Avenue praticamente deserta e via verso Lower Manhattan, per macinare kilometri anche lungo il Brooklyn Bridge. Caldo niente male e maps ci ha poi anche fatto fare un giro dell’oca dentro Chinatown per raggiungere lo sperduto molo da cui partiva la nostra crocierina fotografica verso Lady Liberty, in mezzo a barche arcobaleno. Affamate e cotte (e fregate da un tassista che si è fatto furbo) siamo andate alla ricerca di cibo vicino al nostro appuntamento successivo: il museo/memoriale dell’11 settembre.

Qui ci vuole un capitolo a parte, sia sul nostro pranzetto molto Sex and the City da “Sant Ambroeus” (che non oso immaginare come venga pronunciato dagli indigeni), che per il museo “9/11”. Al ristorante storico di Milano, che non sapevo avesse anche due succursali nella Big Apple, tavolo ombreggiato vista nuovo World Trade Center, negozi di Gucci e Zegna accanto, caro ma qualitativamente alto e, evviva evviva, un signor espresso, tanto che dopo la visita al memoriale ci siamo tornate di nuovo: tre tossiche in astinenza da caffeina! Il museo dell’11 settembre è semplicemente straordinario: non era facile farlo davvero bene, con tutte le sue emozioni e implicazioni, ma ci sono riusciti. E’ ricordo, narrazione, scoperta, emozione, costruito esattamente dove tutto è successo.

Come chiudere l’ultima (di già???) giornata nella Grande Mela? Io e la Bionda prima di partire avevamo preso in mano la situazione e prenotato online un tavolo per un aperitivo su un rooftop bar vista Empire State Building: il “Top of the Strand”, sul tetto di uno dei tanti Marriott, al 21° piano. Prosecchino con panorama unico, temperatura perfetta, ambiente super e musica eccellente: ci stava alla grande!

Domenica: il volo è alla sera, quindi c’è tempo per andare ancora un po’ in giro e macinare altri km a piedi (alla fine saranno una settantina, in quattro giorni scarsi). Stavolta ci dividiamo: Babi torna verso Macy’s e a sbirciare i preparativi per la partenza del corteo finale del Pride, invece io e Heidi andiamo a passeggiare nel verde a Central Park, tra scoiattoli nutriti dalle mani, un tot di cani bellissimi e una corsa con una marea di iscritti che, come ci ha spiegato un toscano ormai trapiantato là che faceva il volontario, fa parte di quelle che, sommate, danno la possibilità di avere un pettorale per la maratona. Ci riuniamo per un pranzo tipicamente americano, in uno di quei locali vagamente retrò con i tavoli con le panche e i divisori tra uno e l’altro, le salse sui tavoli e i menù giganteschi (come le porzioni). E il caffè? Babi al mattino aveva scoperto un espresso niente male in un chiosco di Bryant Park: fa caldo, il sole splende, il parco è magnifico e pieno di gente ed il caffè in effetti è più che decente! Bottarella di malinconia e poi albergo, bagagli, taxi, aeroporto e via, si vola verso casa.

Per me si è così conclusa la quarta e sicuramente non ultima visita nella sempre vibrante e unica Grande Mela, la seconda (e altrettanto sicuramente non ultima) per la Bionda e la prima, e molto probabilmente ultima, per Heidi, che ha approfittato dell’occasione per visitare una città lontana anni luce da quello che le piace e dalle vacanze che ama fare, ma che molto difficilmente ci cascherà di nuovo (altrimenti che Heidi sarebbe?)!

Il feticcio del week end sono state sicuramente le ciabatte pelose arcobaleno nella vetrina del negozio Hugg, che faceva angolo con la Street dell’hotel e ci è servito da subito come punto di riferimento: non abbiamo avuto il coraggio di comprarle ma le abbiamo amate molto, soprattutto la Bionda!

Goodbye New York, alla prossima!

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Cruise Emirates

Ci ho pensato su un po’ a come avrei potuto trovare un riferimento ovale da mettere in questo diario di viaggio e, alla fine, l’ho trovato: a Dubai abbiamo pescato un grosso tassista sudafricano, appassionato di rugby! Detto questo, è un racconto che si inserisce nella parte “and more” del nome di questo mio piccolo blog!

Le tre viaggiatrici “invernali”, questa volta, dopo alcuni giri ai Caraibi e una sortita alle Maldive, hanno un po’ tralasciato il mare, nonostante si stia parlando di una crociera, e si sono lanciate in una settimana più di scoperta: niente isolette e spiagge, sostituite da quella che per noi era una galassia praticamente sconosciuta, ovvero la Penisola Arabica.

Mai come questa volta la nave (Costa Diadema, per la cronaca, classe 2014, made in Marghera) è stata solo un mezzo di trasporto tra un luogo e l’altro da visitare, con quattro città in una settimana, in una zona di mondo assai particolare.

DUBAI

L’Emirato più famoso merita la sua fama ed anche una visita: bastano un paio di giorni, ma va visto! Difficile descrivere l’effetto di questa “oasi” di grattacieli nel deserto, in un posto dove, fino agli anni ’90, c’era solo sabbia.

Ora c’è il grattacielo più alto al mondo, l’incredibile Burj Khalifa, con un ascensore che ti spara al 124° piano (a 550 metri di altezza) in un minuto netto e ti fa sentire veramente minuscolo ed anche incredulo, mentre guardi quel panorama che ha dell’assurdo. Per la cronaca, il grattacielo, in tutto, di metri ne misura 829,80 (antenna/guglia compresa).

Ricordo di aver visto un bellissimo documentario di NatGeo sulla costruzione del Burj Khalifa e ricordo che, attorno al cantiere, c’era sabbia. Ora, ci sono altri grattacieli e, soprattutto, il Dubai Mall, centro commerciale più grande al mondo, un laghetto artificiale ed un souk “effetto vintage” affacciato sul medesimo laghetto insieme ad un numero imprecisato di ristoranti e affini. Il Dubai Mall è qualcosa di mostruoso e, oltre ad un numero infinito di negozi di ogni marchio esistente sulla terra ed altrettanti bar e simili, contiene al suo interno una parete con cascata, una vasca enorme con pesci tropicali e persino squali ed uno stadio del ghiaccio con tanto di tribune. Il tutto, giova ricordarlo, nel deserto.

Quando cala il sole, l’area della Dubai Marina, diventa l’ombelico del mondo: dopo essere stata a Times Square, è stata la prima volta in cui ho sentito di nuovo questa sensazione, con tanta gente da tutto il mondo, le luci, la perfezione di un luogo creato e sviluppato per essere esattamente questo.

Il giorno dopo, invece, abbiamo voluto tastare una dimensione di Dubai assai diversa, con la visita guidata ad una piccola moschea. Un’associazione locale organizza da anni queste visite, per far scoprire e conoscere le basi dell’Islam e promuovere il dialogo e l’apertura: molto interessante ed eccellente iniziativa. A due passi c’è un bel supermercato, dove svuotare gli scaffali dei datteri!

Il Sovrano, negli anni ’90, ebbe l’idea di aprire le porte a zero tasse a chiunque volesse investire e costruire a Dubai e così ha preso il via la nascita di quello che l’Emirato è ora. Il petrolio qui finirà tra pochi anni e il turismo e gli investimenti di ogni genere sono il “piano B” già in preparazione da anni.

Intanto, nel 2020, Dubai ospiterà l’Expo, e non fatico ad immaginare che sarà un qualcosa di clamoroso!

La mia unica perplessità riguarda il clima: a dicembre, poco meno di 30 gradi e un’umidità sorprendente per una zona che credevo secchissima, mentre in estate, ci è stato detto, anche tra i 50 e i 60 gradi…!

MUSCAT

Affacciato anche sull’Oceano Indiano, l’Oman era per me un esotico mistero! Credo sia un paese che meriti di essere visitato e scoperto e non escludo di tornarci: da poco è diventato una meta balneare sempre più gettonata e ci sono infinite possibilità di andare a visitarne il deserto, che pare essere bellissimo.

Abbiamo fatto un’escursione alla scoperta della capitale, visitando da fuori un’importante moschea e facendo tappa al Souk e al pazzesco palazzo del Sultano. La guida era un indiano che parlava italiano e ci ha fatto notare, tra le altre cose, la pulizia assoluta della città e la perfezione di parchi e aiuole, anche qui nel deserto, praticamente senza acqua dolce disponibile naturalmente e con, in estate, più di 60 gradi.

Pare che questo Sultano, venerato come un santo e dalla vita misteriosissima, abbia praticamente costruito e modernizzato il paese nel giro degli ultimi quarant’anni, partendo da una sola strada tracciata in mezzo alla sabbia.

DOHA

Abbiamo fatto un giro per la città con uno di quei bus panoramici “hop on hop off” e Doha soprende allo stesso modo delle altre città di acciaio e vetro spuntate nel deserto: grattacieli, cantieri ovunque, lusso e strade a 6 + 6 corsie.

Il Qatar è in gran fermento perché, nel 2022, ospiterà i mondiali di calcio.

Nel frattempo, ogni anno fa furore il campionato nazionale di falconeria: il falco è, per tradizione, un animale importantissimo e quasi venerato nella Penisola Arabica, così come il cammello.

Tradizione e modernità, come nel bellissimo souk di Doha: vista grattacieli, pieno di turisti e di negozietti che si sono adeguati ma anche di abitanti del luogo e di commercianti che dei turisti se ne fregano allegramente, non parlando una parola di inglese ed accettando solo la moneta locale. Inoltre, esistono ancora parti del del souk dedicate ai cammelli e alla falconeria.

ABU DHABI

Un altro dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti, Abu Dhabi è meno vistoso ma ancora più ricco di Dubai: qui di petrolio ce n’è ancora in abbondanza e governa il figlio di Zayed bin Sultan Al Nahyan, un sovrano morto nel 2004 e ancora oggi venerato come un santo, la cui faccia è ovunque, incluso in versione luminosa sulle facciate dei grattacieli.

Costui, dai primi anni ’70 fino alla sua morte, ha di fatto costruito Abu Dhabi, dopo aver chiesto ed ottenuto l’indipendenza alla regina Elisabetta. Seduto su un mare di petrolio, ha realizzato un paese stabile e ricchissimo, che può permettersi di pagare tutto per i propri cittadini.

La nostra guida alla meravigliosa escursione “by night” alla Grande Moschea (intitolata, ovviamente, al re di cui sopra, che ne aveva voluto ed iniziato la costruzione, terminata poi dal figlio dopo la sua morte) era un simpatico e molto bravo ragazzo egiziano, guida ad Abu Dhabi per sette mesi l’anno e alle Piramidi per quelli rimanenti. Perché non una guida del posto? Molto semplice: perché i cittadini, quindi gli emirantini di origine, praticamente non lavorano, se non negli affari e in cariche pubbliche, e sono ricchissimi. Si parla, per tutti e sette gli emirati, di un milione di persone, contro nove milioni di stranieri che, di fatto, costruiscono e fanno funzionare tutto con il loro lavoro.

La moschea, quarta al mondo per dimensioni, è veramente incredibile: bianchissima (marmo di Carrara), luminosissima (lampadari Swarowski), oro, stucchi e, nella sala di preghiera, il tappeto fatto a mano più grande al mondo (60 × 70 metri, realizzato in Iran, un nodo dopo l’altro).

Prima dell’ingresso c’è una vera galleria commerciale, con bar e negozi: ormai è un’attrazione turistica visitata da tantissime persone e, quindi, perché non approfittarne? Resta però inflessibile la questione abbigliamento: se non è consono alle regole, non si entra prima di aver rimediato con abiti prestati appositamente sul posto.

Il giorno dopo siamo andate a visitare il Palazzo Reale (Qasr Al Watan), un altro tripudio di marmo bianco, oro e fasto, anche solo nella piccolissima parte del complesso ad essere aperta al pubblico.

Dubai e Abu Dhabi sono distanti solo 140 km e sono strettamente connesse nel lavorare insieme per crescere: la prima è più conosciuta, la seconda ha più spazio e più petrolio e, entrambe, corrono veloci e sono piene di cantieri e di soldi.

Devo dire che, anche se ho adorato l’energia di Dubai e la pazzesca Burj Khalifa, mi è piaciuta di più Abu Dhabi, che ha anche sicuramente più cose da vedere, tra cui una succursale del Louvre ed anche, per i fans, il parco a tema della Ferrari.

Tre donne in vacanza sole, in una zona del mondo non considerata propriamente “femminista”: come è andata? Molto bene direi, anche dal punto di vista della sicurezza che abbiamo percepito. Abbiamo deciso di girare “fai-da-te” Dubai e Abu Dhabi (escursione alla Grande Moschea a parte, ma perché ci interessava e piaceva), di fare una via di mezzo a Doha, mentre abbiamo preferito andarcene in giro solo in escursione a Muscat, che non conoscevamo quasi neanche di nome.

Abbiamo scoperto paesi in crescita e affacciati sull’Occidente ma, al contempo, sempre saldamente attaccati alle tradizioni, segnati dagli antichi meccanismi sociali e non solo della vita nel deserto e, naturalmente, indissolubilmente legati alla religione islamica.

Credo sia molto difficile per noi immaginare una vita costantemente, quotidianamente e concretamente tanto influenzata dalla sfera religiosa e la cosa che mi ha colpita di più in questo viaggio è stata senz’altro questa coesistenza di crescita, modernità, globalizzazione, contaminazione, ricchezza ed Islam.

Ovunque ho visto e percepito richiami alla conoscenza e alla promozione di un Islam moderato e aperto, fermo restando, come già detto, la per noi impensabile influenza della religione e dei suoi precetti anche nella quotidianità del XXI secolo.

Credo che la perfetta rappresentazione di questo sia stato il momento di preghiera nel Dubai Mall: sui display sparsi per tutto il centro commerciale compare un’icona che richiama una moschea e la musica in filodiffusione lascia per qualche minuto spazio alla voce del muezzin. Poi riparte la musica e tutto torna alla “normalità” (la nostra, perché la loro è quella).

La guida alla piccola moschea che abbiamo visitato a Dubai, quella dell’associazione culturale e religiosa, era una signora inglese trasferita e convertita da più di vent’anni: impeccabile accento British e tutta coperta, con lunga veste nera e l’hijab sui capelli e sul collo. Che dire? Molto bella ed interessante la spiegazione sui cinque pilastri dell’Islam e buone le risposte alle domande del gruppo, principalmente incentrate sulla questione dell’abbigliamento femminile, anche se la chiave di tutto, ovvero la volontà del tutto personale di vestirsi in un certo modo per praticare la modestia nei confronti di Allah, credo non abbia convinto fino in fondo nessuno dei presenti, così come la risposta sul burqa, spiegato come nato, così come l’abbigliamento tradizionale in genere, perché adatto a riparare da sole e sabbia del deserto. Nessun dubbio sull’origine “pratica”, ma qualcuno in più sulla volontà personale, sull'”utilità” attuale del doversi coprire in quel modo e, di riflesso, sulla concezione della donna che ci sta dietro.

Di sicuro abbiamo visto e percepito ovunque un grandissimo senso di regole e di ordine, che scaturiscono tanto dalla religione e da come viene praticata quanto da chi e come governa questi paesi.

Consiglio questa crociera a chiunque sia curioso di avere un assaggio di quella zona del mondo e mi sento di includere anche chi non ama le crociere e/o il mare, perché al centro di questo itinerario ci sono sicuramente i paesi visitati e il loro essere per noi molto diversi e con tanto da scoprire: la vita di bordo diventa molto marginale e sicuramente è un’esperienza di crociera distante anni luce da quello che può essere un giretto ai Caraibi.

Ci sono una marea di cose da vedere e scoprire nel mondo e io non sono “razzista” sulle modalità per farlo: va bene la crociera se è pratica per quel che voglio vedere e fare, o va bene il fly&drive altrove, oppure un viaggio organizzato per altre destinazioni ancora, e così via.

Next stop: chissà!

La vita è un viaggio e chi viaggia vive due volte.
(Omar Khayyam)

RWC 2019: di gadget introvabili, corteggiamento ed innamoramento

In questi giorni è successa una cosa che mi ha stupita molto. Una mia amica è appena stata in Giappone per lavoro, ha toccato tre città diverse e, seppur non a spasso da turista, non si è fatta mancare qualche passeggiata in vie di negozi ed alcune attrazioni turistiche, oltre che l’obbligato passaggio a/r in aeroporto ed anche due stazioni del super-treno, ma non è riuscita a trovarmi neppure un gadget della RWC, che le avevo chiesto come regalino: “guarda, mi dispiace, ma dei mondiali di rugby proprio non ho visto traccia!”.

Ma come? A due mesi e 24 giorni (come ricordato dal bel sito internet della manifestazione) dal calcio d’inizio della RWC 2019, nel Paese che la ospita si fatica a trovare gadget e souvenir a tema? Verissimo che il Giappone non è il Regno Unito, dove si trovava il merchandising di England 2015 in ogni dove, ma si tratta comunque di un paese che sta investendo moltissimo sul rugby, ha messo su un massimo campionato con grandi sponsor, ha una franchigia da qualche anno in Super Rugby (i Sunwolves), ha stadi di primissimo ordine e poi, insomma, sono giapponesi…! Quindi sanno fare le cose per bene e hanno mezzi per farle, ma ‘sto merchandising, dove sta???

L’Impero del Sol Levante si è affacciato sull’ovale mondiale di alto livello da relativamente poco ed è facile immaginare come ancora il rugby non sia parte delle grandi passioni sportive locali (ma questo nemmeno in Italia e dopo molti più anni, a dire il vero) ma è evidente che hanno deciso di farlo in grande stile: una nazionale all’11° posto nel ranking (l’Italia è al 14°…), i Sunwolves, come detto, in Super Rugby (anche se pare ne usciranno nel giro di un paio d’anni), squadre del massimo campionato con sponsor del calibro di Toyota e affini e impreziosite da giocatori di caratura mondiale che monetizzano cospicuamente il loro viale del tramonto (un esempio su tutti, Dan carter) e, a completamento di questa “manovra d’ingresso”, l’organizzazione del Mondiale di quest’anno. Ma i gadget???

L’affluenza straniera alla RWC non mancherà: molti tifosi coglieranno l’occasione per visitare il Paese (e chi si occupa di turismo lo sa benissimo, avendo creato un sito ad hoc fatto benissimo) ed andarsi a vedere qualche partita, unendo la passione ovale ad un viaggio che spesso si fa una sola volta nella vita. Ma poi, in Giappone, cosa resterà, di questa RWC 2019? (Semi-cit.)

Il papà di un ragazzo delle giovanili Pro Recco Rugby ha commentato su facebook un post sul mio stupore per la mancanza dei gadget dicendo che lui aveva chiesto, allo stesso modo, ad un amico spesso in Giappone per lavoro, una maglia della nazionale nipponica per il figlio, ma che anche la sua richiesta è rimasta insoddisfatta, poiché si è sentito dire che in nessun negozio di articoli sportivi l’amico aveva trovato alcunché di inerente al rugby.

L’innamoramento tra Giappone e rugby è finito prima della prima vacanza insieme? O non è mai scattato, nonostante un corteggiamento di gran lusso?

P.S. Non ho avuto gadget della RWC ma, dal Giappone, ho ricevuto un magnifico magnete con gattino portafortuna, una maschera di bellezza alle alghe, delle caramelle al tè verde ed una spugna per scrub a forma di gatto: tutto assolutamente nipponico!

“Alcune volte vinci. Tutte le altre impari”. (Proverbio giapponese)

Non di solo rugby… Un tuffo al caldo (avvistando delle “H”!)

È vero: un diario di viaggio ai Caraibi non è a tema ovale! Ma…

… Quando ho deciso di sottotitolare il blog “Rugby and more, from my point of view” pensavo esattamente al fatto che mi sarebbe capitato di aver voglia di scriverci anche, ogni tanto, non solo di rugby. Però…

… Come avevo fatto anche con Bohemian Rhapsody, comunque un tocco ovale l’ho cercato anche nel viaggio e non mi è neanche venuto troppo difficile, poiché lo faccio ovunque di guardarmi attorno per cercare di avvistare delle “H”: quando le vedo, mi sento a casa, ovunque esse si trovino.

In questa crociera alle Antille ne ho trovate? Oh yes! Ho visto un campo in Guadalupa (del resto è Francia!) e uno a Trinidad (& Tobago), in un enorme parco, intitolato alla Queen, dove c’erano campi su campi aperti a tutti per praticare vari sport, chiaramente riconducibili a chi li ha portati fin laggiù: rugby, calcio e il dominante cricket.

Come da ormai consolidata e bellissima abitudine, l’inizio di gennaio è stato ancora una volta il momento perfetto per una settimana al caldo per sole donne (tre, per la precisione, tra cui la mia indomita mamma), in fuga dall’inverno: dopo Martinica fly and drive, Maldive fai da te in guest house ed un paio di crociere, quest’anno abbiamo optato di nuovo per una nave, la MSC Preziosa e il suo itinerario alle Antille, nei Caraibi del sud.

Per me è stata la crociera numero sette: mi piace poter assaggiare tanti posti diversi in pochi giorni e, ogni volta, prendo appunti su dove mi piacerebbe tornare per viaggi dedicati.

L’itinerario si è rivelato veramente bello: Martinica – Guadalupa – Saint Lucia – Barbados – Trinidad (and Tobago) – Grenada – St. Vincent (and the Grenadines) – Martinica. Partenza 5 gennaio e ritorno il 12: un bel tuffo, oltre che nelle acque turchesi, al sole e al calduccio!

Il giorno “zero” siamo arrivate in Martinica la sera per imbarcarci dopo tutta la giornata in volo (quasi dieci ore) e, una delle cose che preferisco sempre in assoluto quando si scende dall’aereo ai tropici, è il sentire sulla faccia l’aria calda e umida, tenendo sotto braccio il piumino che per qualche giorno non servirà!

In Guadalupa, stanchine e ancora un po’ sballottate da viaggio e fuso, siamo state pigre e ci siamo affidate ad un’escursione MSC: il tour panoramico Sainte Anne + cocktail rinfrescante + Pointe des Chateaux + cimitero di Morne-à-l’Eau, che ci e piaciuto tantissimo! Guadalupa è molto bella, più selvaggia, “meno francese” e “più nera” rispetto a Martinica. Campi da rugby avvistati: uno. Per la cronaca, la FFR ha anche qui un suo comitato locale.

La seconda tappa è stata Saint Lucia, un’isola bellissima e a lungo contesa tra Francia e Inghilterra. Ebbero la meglio gli inglesi, che hanno lasciato la guida al contrario e il Commonwealth, quindi anche la Queen. Che dire? Urlerei a chiunque: “ANDATE A SAINT LUCIA E CORRETE IN SPIAGGIA A REDUIT BEACH!”. Aggiungerei: “… Ma andateci presto e non fermatevi vicino al parcheggio, perchè poi arrivano i croceristi in escursione tutti insieme e vi sale l’odio!”.

Avevo molte aspettative sulla tappa del martedì, cioè Barbados, perchè avevo visto foto di spiagge strepitose e non vedevo l’ora di esserci: non sono rimasta delusa e ci tornerei di corsa per una vacanza! Ci siamo fatte portare ad Accra Beach, abbiamo trovato una spiaggia pazzesca e, ad una certa ora, sono iniziate a diffondersi voci incontrollate sulla presunta vicinanza della villa di Rihanna, che a Barbados ci è nata! “Scusi, chi ha fatto palo???” (cit.). La chiave per sopravvivere ai Caraibi è mettersi il cuore in pace sui tempi di attesa al bar: keep calm, sempre!

Port of Spain, capitale di Trinidad (& Tobago): siamo in fondo ai Caraibi, accanto al Venezuela. Spiagge lontane, qualche nuvola in cielo e allora abbiamo fatto un tour privato con un confortevole e nuovissimo taxi, il cui conducente ha sfidato le ire e i clacson di tutti gli altri automobilisti andando a passo di lumaca e fermandosi per farci vedere e fotografare cose. La parte coloniale della città è bella, con la zona detta “Magnificient Seven”, cioè sette edifici in stile inglese perfettamente conservati e oggi sedi di scuole e varie istituzioni. Nel “Queen Savannah”, parco molto grande che include anche un giardino botanico ed uno spazio dove si celebra il Carnevale, ho avvistato le famose “H”.

L’Isola di Grenada è stata la più bella sorpresa della crociera: nessuna di noi l’aveva mai sentita nominare ma ci siamo trovate in una cittadina caraibica molto carina (la capitale Saint-Georges) e siamo andate alla spiaggia di Grande Anse, di cui avevo letto essere una delle più belle dei Caraibi, cosa che confermo: urlo a gran voce che E’ STREPITOSA! Anche qui, conviene arrivare presto e spostarsi un po’ rispetto al punto di arrivo, perché ad una certa ora arrivano i croceristi in escursione e in massa. Si intuisce che invecchiando sopporto sempre meno l’umanità? Qui campi da rugby non ne ho visti, anche se è sempre Commonwealth e quindi di sicuro ce ne saranno almeno in qualche scuola, però, in compenso, ho visto che una parte della strada che si percorre tra la capitale e la spiaggia è intitolata, con tanto di foto in formato maxi, a Kirani James, nato nel 1992, velocista e unico atleta nella storia del suo paese ad aver vinto medaglie (un oro e un argento) ai Giochi Olimpici (a Londra e a Rio): quando lo sport vale tantissimo! Non lontano dal terminal crociere c’è un grande supermercato e consiglio a chiunque l’esperienza di una visita, per trovare negli scaffali un mucchio di cose che ti fanno domandare: “ma che cos’è???”. Peraltro, io adoro in generale andare al supermercato quando sono all’estero: la considero un’esperienza turistica e di scoperta a tutti gli effetti!

A Kingstown, capitale di St. Vincent (and the Grenadines) ce la siamo presa comoda e siamo scese dalla nave con tutta calma per farci una passeggiata. E’ stato sicuramente un tuffo nei Caraibi “veri”, in una città ancora non pensata affatto per i turisti, molto semplice, con tutto il bello e il meno bello delle isole tropicali: abbiamo curiosato un po’ camminando fino ad una cattedrale tipicamente inglese (Commonwealth anche qui) segnata sulle mappe e ci siamo sentite davvero “altrove”.

Il volo di ritorno era serale, quindi ci siamo godute ottimamente anche l’ultimo giorno, in Martinica. Eravamo state in Martinica la prima volta nel 2015 per nove bellissimi giorni di residence a macchina a noleggio (l’isola è veramente stupenda!) e nel 2018 di nuovo con una tappa di crociera, andando in spiaggia (nostalgia), ma non avevamo mai fatto neanche un giretto nella capitale, Fort-de-France. Quindi, in tutto relax, ci siamo dedicate ad una passeggiata dal terminal crociere al centro storico della città, che è una sorta di Quartiere Latino parigino un po’ più “tamarro” e trasportato alle Antille: del resto, è sempre Francia! Quando c’ero stata l’altra volta, in giro in macchina ascoltavamo la radio e, sui canali locali, davano sempre le notizie di Top14: fa un po’ strano, in mezzo al mar dei Caraibi!

Dulcis in fundo, la nave: la MSC Preziosa è bella, grande, tenuta benissimo e molto elegante, cosa non da poco nel mare di kitsch che mediamente caratterizza le navi da crociera. Probabilmente la cosa che più mi affascina delle navi da crociera è il fatto che sopra ci sia il mondo intero, con le sempre settanta o giù di lì nazionalità diverse dei membri dell’equipaggio: un microcosmo di ferro e moquette abitato e mandato avanti da migliaia di persone che vengono dai posti più diversi, si portano dietro le tradizioni e le abitudini più varie, hanno le competenze, i compiti e le responsabilità più assortiti e sono lì tutte insieme, in un “non luogo” che tocca continuamente tanti posti diversi. Quando ho fatto una crociera partendo da Genova (era sempre la MSC Preziosa, peraltro), è stato stranissimo: a parte il raggiungere la nave in autobus, che già come partenza per una vacanza fa un pochino strano ma, soprattutto, dopo essere tornata, rivederla ogni sette giorni lì in porto e sapere come era dentro e che sopra c’era tutto questo spicchio di umanità da tutto il mondo, mi lasciava una sensazione difficile da definire, perchè di solito si percepiscono la vacanza e/o il viaggio come un luogo “altrove”, mentre il luogo di quella mia vacanza lo rivedevo da fuori ogni settimana nella città dove vivo.

“È ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa propria”. (Voltaire)

P.S. Un altro collegamento ovale: è stato il ritardo del volo di ritorno da questa crociera a farmi mancare Pro Recco-Parabiago e a dare poi origine a Scusi, chi ha fatto… calcio???

(Foto principale: la spiaggia di Grande Anse, a Grenada)