80 minuti e poi…

Rugby and more, from my point of view.


Un’intervista a… Antonio Raimondi: di rugby, telecronache e spuma

Antonio Raimondi, classe 1963, sul campo una carriera da pilone nel CUS Milano, poi giornalista e telecronista che, insieme a Vittorio Munari, forma un duo di commentatori amatissimo dagli appassionati di rugby. Ora che siamo di nuovo in periodo di 6 Nazioni ho pensato di fare una chiacchierata con lui, parlando di “Munari e Raimondi” e di telecronache ma soprattutto di rugby: buona lettura!

Un pacato pilone e un mediano di mischia tutto pepe: come nasce il sodalizio tra te e Vittorio?

Io sono stato un ammiratore di Vittorio da quando faceva le telecronache con Fabrizio Gaetaniello su Telecapodistria, nel 1991 ci siamo incontrati alla Coppa del Mondo, dove io mi trovavo per Tele+ e poi, alla RWC del 1995 in Sudafrica, abbiamo passato più di un mese insieme e, una volta che non c’era Gaetaniello, abbiamo fatto la prima telecronaca insieme, ma non ricordo quale fosse la partita. La nostra collaborazione è nata però più avanti, a inizio anni 2000, quando Tele+ aveva acquisito i diritti del 6 Nazioni ma le partite dell’Italia le trasmetteva la Rai e le commentava Vittorio, allora io convinsi i miei capi a prendere lo stesso Vittorio per commentare insieme le altre partite e non abbiamo più smesso: io sono la componente più televisiva del nostro duo e lui quella più rugbistica. Devo ringraziare Vittorio perchè è stato fondamentale nella mia formazione e alla base del nostro rapporto ci sono rispetto e fiducia.

Voi due siete scolpiti anche nella memoria degli spettatori occasionali (“i due simpatici del rugby”, cit. mia mamma), siete riconosciuti come capaci di raccontare il rugby a tutti in modo semplice, vivace e originale ma siete anche entrambi estremamente competenti e quindi in grado di commentare in modo molto tecnico: qual è la ricetta giusta per fondere l’accessibilità con i contenuti tecnici?

Io mi occupo dei telecronisti di Eurosport, li coordino per gli eventi, ho già fatto questo per diverse edizioni delle Olimpiadi, ora sto costruendo la squadra per Parigi 2024 e un punto chiave è che il lavoro del telecronista deve basarsi su due aspetti: la competenza, che va sempre curata con studio e preparazione, e la parte emozionale, quindi la capacità di far passare attraverso di te l’emozione dell’evento che stai commentando. Il linguaggio da usare deve essere dunque gergale ma inclusivo, quindi proprio dello sport che si racconta ma a cui si deve affiancare un qualcosa che permetta al pubblico di non sentirsi esterno a ciò che sta guardando. Faccio l’esempio del grillotalpa, un’espressione usata da Vittorio e diventata celebre: è nata per scherzo, perchè suo figlio gli aveva chiesto di dire “grillotalpa” in telecronaca, così lui pensò di dire, con riferimento alla contesa dei mediani mischia “cacciatori” di palloni (“the jackal” in inglese, lo sciacallo), che era proprio una mossa tipica del grillotalpa. Da quel momento abbiamo iniziato a ricevere email e messaggi dove si parlava di questo grillotalpa, persino foto di pagine di enciclopedia su questo insetto che, onestamente, io fino a quel momento non conoscevo nemmeno! Io e Vittorio siamo semplicemente noi stessi e anche quando capita che guardiamo insieme qualche partita in tribuna, ad esempio a Treviso, facciamo commenti uguali a quando facciamo le telecronache, tranne che Vittorio è un po’ più cattivello nei confronti degli arbitri.

Dopo la prima giornata del 6 Nazioni tu e Vittorio siete tornati alla ribalta con il podcast “Placcaggio Alto” che è stato fin da subito molto apprezzato dagli appassionati e ha suscitato una grande nostalgia di voi due come telecronisti: come è nata quest’idea?

Ci pensavamo da un po’ ma la verità è che siamo pigri e non siamo riusciti a farlo per la RWC dello scorso anno e siamo allora partiti con il 6 Nazioni in corso, con l’idea di decidere poi se continuare anche dopo o no. Alla luce dei riscontri che stiamo avendo credo che continueremo, perchè sia i numeri che i commenti positivi che stiamo ricevendo sono davvero importanti e mi hanno ricordato quanto possiamo essere importanti per le persone. A questo proposito posso fare tre esempi: un ragazzo disabile che si è appassionato al rugby con le nostre telecronache e ora va all’Olimpico a vedere le partite della Nazionale e con cui siamo in contatto, un altro il cui padre quando è mancato ha voluto sulla lapide la mia frase “mai paura” e giusto stamattina su facebook ho letto il commento di una coppia che vive in Sudafrica che dice “fate parte della nostra famiglia anche se non lo sapete”.

Moreno Molla, giornalista e telecronista di Sky che conosci molto bene, ti considera non solo un amico ma anche un Maestro e non ha mancato di citarti nell’intervista che ho fatto a lui l’anno scorso: quali ritieni siano i tuoi maggiori pregi come commentatore?

Io mi riconosco un unico grande pregio, cioè la voglia di lavorare e di darmi da fare, l’etica del lavoro. Ho studiato e imparato anche il mestiere del telecronista, che non era la mia prima opzione perchè mi occupavo del coordinamento dei telecronisti sportivi, tra cui c’erano Caressa e Tranquillo.

Ho anticipato a Moreno che ti avrei intervistato e lui mi ha citato un tuo editoriale risalente al 2010 quando Sky prese i diritti per il 6 Nazioni, dove dicevi che lo avreste trattato “col rispetto per la storia di quel torneo e col gusto delle ginocchia sbucciate e della spuma da 50 lire”: se chiudi gli occhi e pensi a quelle ginocchia sbucciate e alla spuma, quale ricordo di rugby ti viene in mente per primo?

La mia seconda casa, cioè il vecchio Giuriati di Milano, spelacchiato, con il fango e la scarsa illuminazione, le tante ore passate su quel campo quando ci si fermava a giocare anche dopo la fine dell’allenamento e poi la doccia per togliersi di dosso il fango.

Il rugby professionistico di oggi è quasi un altro sport rispetto a quello di pochi decenni fa, con un cambiamento assoluto a livello fisico che ha portato con sé anche notevoli cambiamenti nel gioco e nel regolamento: cosa ha guadagnato e cosa ha perso il gioco del rugby in questa trasformazione?

Il discorso è molto complesso e il paragone difficilissimo perchè è cambiato tutto con un professionismo arrivato ormai a livelli mai visti prima, ma basta anche solo pensare alla rivoluzione portata a suo tempo dalle sostituzioni delle prime linee. Ora assistiamo ad una ricerca e analisi quasi maniacale della prestazione che va a volte a discapito della tecnica individuale, che a sua volta è cambiata moltissimo. Sicuramente una cosa che non mi piace è che si va sempre di più verso un’interpretazione delle regole che scavalca le regole stesse, che stanno diventando troppe e troppo complesse, come ad esempio sugli ormai famosi placcaggi alti. Peraltro il mio pensiero è che per la sicurezza e salute dei giocatori sarebbe allora più utile fissare un limite stagionale di partite.

C’è qualcosa che invece credi sia rimasto ancora intatto o quasi, qualcosa che attraversa i cambiamenti e continua a sapere, se non di spuma da 50 lire, di birra da club house che si scalda subito?

Quando rivedo i miei compagni di squadra. Con un rugby diventato professionistico dal 1996 e, come si diceva prima, con un professionismo sempre più esasperato, ormai è una dimensione completamente diversa.

Tra le purtroppo innumerevoli sconfitte dell’Italia in questo millennio, quale ti ha deluso di più? (La mia è la sconfitta di Saint-Étienne contro la Scozia alla RWC del 2007: ero sugli spalti e dopo non sono più riuscita a mettere piede allo stadio fino al 6 Nazioni 2011…)

La partita contro l’Irlanda alla RWC 2011: ho provato una grande frustrazione perchè i nostri ragazzi erano inerti davanti ad una squadra battibile ma aggressiva e non c’era nessuna reazione da parte dell’Italia, tranne Mauro Bergamasco che però rimediò un cartellino giallo. Piuttosto di quell’inerzia avrei preferito quindici cartellini gialli “per grinta”.

“Italiani no buoni per rugby” o abbiamo qualche speranza?

Trovo questa frase priva di cultura sportiva, perchè anche se non arrivi primo vale sempre la pena provarci: anche se i problemi sono innegabili dobbiamo essere orgogliosi di quello che riusciamo a fare. Altrimenti allora sarebbe come dire che non siamo più buoni per il calcio perchè da due mondiali non ci qualifichiamo o che non siamo più capaci di costruire macchine perchè la Ferrari non vince.

(Foto: archivio personale Antonio Raimondi)



2 risposte a “Un’intervista a… Antonio Raimondi: di rugby, telecronache e spuma”

  1. Bellissima intervista. Grazie!
    Davide Cortesi

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