77.000 telespettatori per me, posson bastare…?

Nei giorni scorsi, impegnata a godermi una piscina termale nella settimana del mio compleanno, ho seguito pochissimo le vicende ovali ma mi sono comunque imbattuta nell’articolo del sempre bravo Paolo Wilhelm sui 77.000 spettatori della diretta tv della finale di Top12, massimo campionato italiano di rugby.

Tanti? Pochi? Entrambe le cose allo stesso tempo, come evidenziato da Paolo. Diciamo tanti, o comunque un numero affatto male, per chi realisticamente sa di cosa si parla quando si dice “rugby italiano” ma, certamente, pochi se si immagina una diretta su Raisport come possibilità di far arrivare quella partita anche a chi non fa già parte del “circolo” del rugby.

“Il rugby italiano parla ormai solo a se stesso”, ragiona Wilhelm e, anche qui, coglie nel segno. L’esperienza quotidiana di ciascuno di noi è fatta dell’essere fans di uno sport che in Italia è “minore”, se non addirittura di nicchia: colleghi, parenti e conoscenti, salvo felici eccezioni, ignorano ogni cosa del rugby italiano e si limitano al sapere che esiste una Nazionale che perde sempre (sigh) e, se gli chiedete di citarvi dei giocatori, saranno Castrogiovanni, i Bergamasco e Lo Cicero, perché sono stati in tv (non a giocare a rugby). Arriveranno fino agli All Blacks, “quelli della Haka che vincono sempre”, ma scordatevi nomi di Tuttineri ed anche di ogni altro mito ovale.

La differenza con il calcio e con altri sport che hanno ben altra vetrina ed attenzione sui media è che io, che pure non seguo nè pallone, nè F1, nè tennis, per dirne tre, comunque ne ho una conoscenza ben più ampia rispetto a quella che gli “altri” hanno del rugby: ne sento quotidianamente notizie al tg, ne leggo sempre sull’home page di quotidiani online, vedo i campioni come testimonial di marchi e li ritrovo costantemente sulla carta stampata con articoli, foto e nomi. Il rugby? Non pervenuto.

Ripenso all’immagine di Semenzato che, alla fine della finale, con la medaglia al collo, raccoglie bottigliette di plastica e rifiuti vari dal campo e li butta in un bidone: chi l’ha vista, al di fuori di “noi”? Non è sfuggita al bravo Paolo Ricci Bitti, che le ha trovato spazio su Il Messaggero, ma io l’avrei vista benissimo anche in qualche tg e l’avrei voluta virale sui social: è un’immagine bellissima, di sport, di rispetto, di educazione, è un messaggio perfetto e “che piace”, è marketing già pronto.

Sembra banale ma, anche qui, la chiave sarebbe partire dal basso del basso: scuole e campi. Infatti, le uniche altre occasioni in cui qualcuno che mi circonda, ma che è al di fuori del mondo ovale, mi ha nominato il rugby è stato per raccontarmi che i figli lo avevano provato a scuola, grazie a Rugby Tots o alla visita di qualcuno di una società della zona: per gli sport “minori” i praticanti sono il primo e fondamentale bacino di seguito.

Nella difficoltà generale del raggiungere nuovi appassionati in chiave di spettatori, la sua parte la fa sicuramente anche l'”incoerenza” nella trasmissione delle partite: con il 6N su DMax, il Pro14 su DAZN (e sarei curiosissima di sapere i dati delle partite di Treviso e Zebre), la regular season del Top12 in streaming FIR e i suoi playoff su Raisport, seguire e tenere il filo è palesemente difficile. Io stessa, che faccio parte del mondo ovale e amo guardare il rugby, aspetto come una Bibbia il riepilogo del palinsesto ovale del week end per riuscire ad orientarmi tra partite, orari e canali: come pensare di riuscire ad accalappiare efficacemente spettatori distratti, neofiti, genitori di piccoli ruggers che si stanno avvicinando alla disciplina?

E poi… “Ma chi ci gioca lì della Nazionale?”… “Ehm… nessuno”. Già è difficile spiegare che la Serie A non è, in realtà, “la” Serie A come nel calcio, figuriamoci poi far anche capire che nel massimo campionato nazionale, finale inclusa, non ci gioca nessuno della Nazionale: diciamo che l’ordinamento del nostro rugby non aiuta, a sua volta, a “venderlo” agli “altri”.

Perché solo 77.000 persone guardano la finale del massimo campionato nazionale? Perché, al di fuori delle piccole piazze delle due squadre e degli altri appassionati (tra cui io, che l’ho attesa e guardata), nessuno sapeva della sua esistenza, come dell’intero campionato: “La Nazionale che perde sempre” (sigh) si ritaglia un po’ di spazio solo nei due mesi scarsi del 6N e, anche proprio per la cronica e tragica mancanza di risultati, la sua capacità di far aprire una breccia di curiosità e attenzione anche verso il rugby italiano, quello dei campionati e delle società, è nulla.

Ma io mi chiedo, guardando oltre le sconfitte degli Azzurri: sarebbe proprio impensabile approfittare del 6N anche per promuovere il rugby nostrano, anche solo con la presenza al Villaggio Peroni di uno stand dedicato e di giocatori delle squadre di Top12 ed anche di piccoli del minirugby, o facendo ricordare dallo speaker le partite più imminenti del massimo campionato e di Treviso e Zebre, ad esempio? E programmare costantemente visite di giocatori e tecnici di Top12 e delle celtiche presso i club delle serie minori, per promuoversi a vicenda?

Inoltre, pensando allo sport USA, dove ognuno si porta dietro fino alla tomba il nome della sua università e della high school, perché non evidenziare, nelle schede dei giocatori di Zebre e Treviso ma anche di Top12 e, naturalmente, dei nazionali, i club dove hanno giocato, incluso il primo? In un colpo solo si darebbero ai club soddisfazione, riconoscimento ed anche pubblicità ed “esistenza” e si trasmetterebbe un minimo senso di sistema.

Si punta spesso il dito sul livello non eccelso del nostro rugby “domestico” ma io credo che questo sia un fattore che viene dopo: il rugby da noi è così poco conosciuto e capito che, in ogni caso, i pruriti da tecnici di caratura mondiale tra i nuovi appassionati verrebbero dopo. È uno sport bellissimo, è coinvolgente, è particolare e piace facilmente “a pelle” ma, perché piaccia, va prima proposto, fatto conoscere e fatto vivere e non solo per un paio di mesi l’anno e in sola salsa azzurra (che è anche annacquata): si gioca da settembre a giugno, da nord a sud.

Teniamoceli cari i 77.000 che hanno guardato Calvisano-Rovigo: il rugby italiano ha bisogno di diventare più fruibile, più facile da provare, da trovare, da scoprire ed anche da guardare e da amare. È un lavoro per tutti e non credo sia più rimandabile.

Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all’improvviso il sangue di un delitto.

[parlando del Rugby]

(Richard Burton)

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Rugby and more: infine, lo gnocco del 6N 2019!

La pregiatissima giuria che ha già votato i più bei figlioli della prima giornata del 6 Nazioni 2019 (qui) e diramato le convocazioni nientemeno che per gli gnocchi di ogni tempo (qui) ha, infine, assolto anche al compito per cui era del tutto spontaneamente nata, sette settimane fa, la chat di whatsapp che, dopo 4.300 messaggi, ha ora decretato i giocatori più affascinanti del torneo appena concluso ed eletto il loro re.

Siccome ci teniamo sempre anche all’aspetto didattico e di diffusione del rugby, le convocazioni stavolta sono state suddivise in “avanti” e “trequarti”, di modo che, anche chi non mastica molta palla ovale, possa prendere confidenza con questa distinzione tra i primi otto uomini e gli altri sette, ricordando anche che a rugby si gioca in quindici. Nelle convocazioni “All time and all stars” avevamo esplicitato tutti i ruoli con i relativi numeri di maglia e siamo molto orgogliose delle nostre dispense anche didattiche e non solo estetiche ed ormonali!

Quindi, chi è il re?

… Rullo di tamburi…

“The Gnocco of the 6 Nations 2019” is… …

YOHANN HUGET (FRA)!!! Dunque, un “roi”: il suo fascino franco-brasiliano ha sbaragliato i pur quotatissimi e dotatissimi avversari!

 

E gli altri contendenti al titolo, quelli che hanno ricevuto più nomination durante le cinque giornate del torneo? Eccoli, con anche alcuni “extra”! Traduzione: leggete fino alla fine.

AVANTI (la mischia):

  • ALLAN “lo abbiamo puntato dalla prima partita” DELL (SCO) DELL
  • JONNY “che famigliola” GREY (SCO) Jonny Grey
  • ALUN WYN “The Captain” JONES (WAL) Alun wyn jones
  • GEORGE “l’orecchio glielo perdoniamo” KRUIS (ENG) George_Kruis_3419833b-e1461163636355
  • COURTNEY LAWS (ENG) lawes
  • STUART MCINALLY (SCO) Mcinally
  • JOSH “come stanno bene i bicipiti con le treccine” NAVIDI (WAL) NAVIDI
  • LOUIS “bello da decenni” PICAMOLES (FRA) PICAMOLES
  • SEBASTIEN VAHAAMAHINA (FRA) sebastien-vahaamahina

TREQUARTI (gli altri):

  • DAN “caramello salato” BIGGAR (WAL)BIGGAR
  • TOMMASO CASTELLO (ITA) CASTELLO
  • ELLIOT DALY (ENG) DALY
  • CHRIS “un uomo e il suo ciuffo” HARRIS (SCO) HARRIS
  • ROBBIE HENSHAW (IRE) HENSHAW
  • ROB “che dire?” KEARNEY (IRE) Kearney
  • MAXIME “da anni una certezza” MEDARD (FRA) MEDARD
  • CONOR MURRAY (IRE) MURRAY
  • HENRY SLADE (ENG) SLADE

 

Ma non abbiamo ancora finito: abbiamo anche un convocato “honoris causa”, una terna arbitrale e due commentatori tv!

Convocato “ad honorem” (era nella rosa gallese per il torneo ma non è riuscito a rientrare dal suo infortunio): LEIGHT “mezzamonetina” HALFPENNY (WAL) Halfpenny

Terna arbitrale:

  • BEN O’KEEFFE (NZL) Ben-O_Keeffe-800.jpg
  • LUKE PEARCE (WAL)                          PEARCE REF.jpg
  • NIGEL “lo amiamo tutte spudoratamente” OWENS (WAL) Nigel

TV (abbiamo pensato a tutto!):

  • DANIELE PIERVINCENZI (ITA – DMAX) PIERVI
  • SIR JONNY “riusciamo a metterlo anche qui” WILKINSON (ENG – ITV) jonny

 

Tutto questo non sarebbe mai stato possibile senza, come principale punto di partenza, parte del vecchio gruppo delle Camioniste di rugby.it, un’esperienza ovale, umana e sociale realmente pazzesca che, quindici anni dopo la sua nascita, fa ancora sì che si mantengano amicizie e legami, in barba a tempo, vicende e distanze. Grazie dunque alle Camioniste e alle altre amiche che hanno fatto parte della chat, diventate senza dubbio Camioniste ad honorem!

La giuria: Emy (ovvero io), Paola x 2 (nel senso che sono due Paole), Franca, Roberta, Cinzia, Chiara x 2 (come sopra), Ony, Giorgia ed Elena, con la partecipazione della piccola Matilde.

“Il rugby è un gioco primario: portare una palla nel cuore del territorio nemico. Ma è fondato su un principio assurdo, e meravigliosamente perverso: la palla la puoi passare solo all’indietro. Ne viene fuori un movimento paradossale, un continuo fare e disfare, con quella palla che vola continuamente all’indietro ma come una mosca chiusa in un treno in corsa: a furia di volare all’indietro arriva comunque alla stazione finale: un assurdo spettacolare.” (Alessandro Baricco)

Italia-Francia: non vincere…

Qualche giorno fa mi chiedevo (qui) se battere la peggior Francia del millennio e conquistare all’ultima giornata del 6 Nazioni 2019 una vittoria nel torneo, dopo ventuno sconfitte di seguito, sarebbe stato un bene per l’Italrugby. Il problema mi è stato tolto dagli Azzurri stessi, capaci di perdere una partita che andava solo vinta, contro un avversario imbarazzante che ben difficilmente ci ricapiterà mai tanto disastrato, in 80 minuti inguardabili, commettendo errori imperdonabili ed anche incredibili.

Italia-Francia, grigia come il cielo di Roma, è finita 14-25. L’Italia, con più possesso e più occasioni, ha perso senza prendere neanche un bonus e chiudendo quindi a zero il suo 6 Nazioni: cucchiaio di legno e whitewash, un’altra volta.

Quindi, come si possono ascoltare gli ormai sempre più vuoti “stiamo crescendo”? Che uno magari per un po’ ci crede anche, porta pazienza (virtù che certo non manca, insieme ad un evidente masochismo, agli appassionati italici di palla ovale), ma poi arriva anche il momento in cui il disco va cambiato, perché ormai il commento più gentile agli “stiamo crescendo” è “e meno male…”, mentre gli altri sono irriferibili.

Si è perso dunque e, mentre a Roma si scuote la testa dicendo “non capisco come abbiamo perso”, a Parigi ci si chiede come diavolo sia stato possibile vincere non facendo quasi niente: “da che punto guardi il mondo tutto dipende” (cit.).

E ora? Il programma dice che, da metà settembre a inizio novembre, in Giappone c’è la RWC 2019, dove gli Azzurri, mai andati oltre il primo turno, sono attesi da un girone dantesco più che eliminatorio: Italia, Canada e Namibia con… Nuova Zelanda e Sudafrica. Quante ne passano? Ovviamente, due. Iniziare ad augurare fin da ora cospicui malesseri “influenzali” agli Springboks forse dovrebbe essere parte integrante della preparazione azzurra all’impegno, giusto per poterci almeno provare.

Dopo lo scempio di Italia-Francia, l’ultima giornata del 6 Nazioni ha rifatto gli occhi e il cuore a tutti con Galles-Irlanda e Inghilterra-Scozia: i Dragoni, guidati dal sempre più immenso Capitano Alun Wyn Jones, che ha iniziato la partita mettendo la sua felpa ad un intirizzito bambino durante gli inni nazionali, hanno triturato l’Irlanda (25-7) e portato a casa trofeo e grande slam (5 vittorie su 5), gli scozzesi (quelli del mai abbastanza ricordato e citato “sì ma la Scozia cosa porta?”), fino a pochi anni fa “la Scozia la battiamo”, sono usciti da Twickenham con un mostruoso 38-38 (da 31-0 per gli inglesi) e la Calcutta Cup sottobraccio.

Noi dove siamo stati, mentre la Scozia che battevamo è diventata quel che è ora? E dove siamo ora? In un posto che non è Glasgow, diciamo (altra cit.)!

Purtroppo, si è confermata in pieno la sensazione che già aleggiava quando il torneo stava per iniziare (qui): un 5+1 Nazioni, con un’Italia che, come se non bastasse già tutto il resto, sembra diventata incapace di vincere anche quando potrebbe farlo.

Facciamo che magari sia ora di iniziare a cambiare sul serio qualcosa, dalla base fino alla punta?

Chiudo con una mia opinione, che so mi attirerà gli strali di chi “il Capitano non si tocca”: se fossi in Parisse, il titolo di Man of the Match di ieri mi avrebbe offeso. Per i giusti riconoscimenti alla carriera ci sarà tempo, ma un MoM al termine di una delle sue non certo migliori partite e con la sua squadra sconfitta non lo trovo per niente “un bel regalo”.

Un pensiero allo sfortunatissimo Leo Ghiraldini, la cui ultima partita in carriera al 6N è finita troppo presto e troppo male e, quasi sicuramente, gli toglie anche l’ultimo Mondiale.

Ed un pensiero, naturalmente, ad un altro degli uomini in campo ieri e che a Roma ha anche lui salutato il 6 Nazioni: il mio adorato Nigel Owens, la cui classe 1971, purtroppo, è implacabile anche per il più bravo, carismatico e amato arbitro di rugby del millennio. Non consiglierò mai abbastanza a chiunque di leggere “Half Time”, la sua straordinaria autobiografia!

“Un albero il cui tronco si può a malapena abbracciare nasce da un minuscolo germoglio.
Una torre alta nove piani incomincia con un mucchietto di terra.
Un lungo viaggio di mille miglia si comincia col muovere un piede”. (Lao Tse)

6 Nazioni, giornata 3: mix-and-match

6 Nazioni 2019, giornata 3, Italia-Irlanda all’Olimpico di Roma (16-26).

Mix-and-match dal desk dell’area media e dalla tribuna stampa dello stadio:

  1. Sono sbarcati i giapponesi!!!! Si palesa al desk un ragazzo (italiano) visibilmente poco esperto del luogo e delle modalità stampa della giornata: ci chiede informazioni sui tempi e gli orari e gli interessa la mixed zone, dove si fanno le interviste al volo ai giocatori quando escono dagli spogliatoi dopo essersi cambiati a fine partita. Gli diamo tutte le info, lui si gira e inizia, in un giapponese che ci ha lasciate tutte di stucco per musicalità, a tradurre le informazioni per un ragazzino che sembrava uscito da un cartone animato giappo e ad un uomo, sempre giapponese, brizzolato ma con i capelli tinti di viola, che somigliava pari pari ad un personaggio dei film di Miyazaki: ascoltavo incantata l’interprete e non riuscivo a smettere di guardare questo strepitoso tizio! Erano di una tv nipponica, ovviamente: RWC 2019 is in the air!
  2. Poco dopo il fischio finale vado al bagno delle signore (cit.) dell’area media e lo trovo letteralmente invaso di signore e signorine Irish che si tirano a lucido, contendendosi gli specchi ed evitando di calpestare le trousse di variegate attrezzature da trucco e parrucco, raggiungendo il livello di stucco e cazzuola! Cena di gala was in the air (and so much lacca was in the air too!)!
  3. Dopo essere andata in un altro bagno delle signore, ho ritrovato al desk il giapponesino che, forse non convinto delle spiegazioni precedenti, era tornato a chiedere conferma, coraggiosamente in inglese e senza l’interprete, dove fosse la mixed zone e a che ora aprisse: l’ho accompagnato, gli ho fatto vedere la porta e spiegato quando avrebbe aperto. Mi ha detto di aver capito e ringraziato per un minuto di seguito: chissà se poi ‘ste interviste flash per i tifosi del sol levante sono davvero riusciti a farle!
  4. Mi sono trovata davanti l’arbitro Tomò diventato biondo, e gli dona anche!
  5. Alla faccia delle Irish che hanno invaso il bagno per il restauro pesante, la mia collega volontaria Viola registra dei tutorial di trucco rapido e senza specchio: la classe delle donne intraprendenti!
  6. Quando, mentre stavo dando informazioni in inglese ad un giornalista, ho visto avvicinarsi il mitico Ian, Aussie da decenni in Italia che, tra le altre cose, insegna inglese, mi sono istantaneamente sentita come se fossi tornata a scuola: “Ian, meno male che non mi hai sentito parlare inglese, se no mi davi subito della capra!” – “Ah, parlavi inglese? Non mi sembrava!” (simpatico!!!) – “Comunque, in inglese non si usa goat, ma donkey!”. Grazie Ian!
  7. I giornalisti hanno applaudito O’Shea e Ghiraldini quando sono entrati in sala stampa per la conferenza di rito del dopo partita. Bello, spontaneo e sanguigno, ma anche amaramente sintomatico di quanto agli appassionati e ai tifosi italici manchino ormai non solo le vittorie ma anche delle belle quasi-vittorie. Un punto di ripartenza? Difficile, viste le partite mancanti e il palese divario complessivo rispetto alle altre cinque squadre ma, dopo troppe sconfitte assai fosche, ad oggi qualche altra “sconfitta onorevole”, che nessuno pensava mai di poter rimpiangere, farebbe già un gran bene.
  8. Lo stadio vuoto al mattino mi mette sempre i brividi, così come Ireland’s Call.
  9. Giustamente, si è parlato tanto della semplicemente strepitosa Nazionale femminile, vittoriosa di misura sulle Irish e in piena corsa per poter vincere il 6 Nazioni: women do it better! Hashtag donneintraprendenti e donnevincenti.

Il rumore di chi non c’è

38.700: è questo il numero che fa più rumore, dopo Italia-Galles, seconda giornata del 6 Nazioni 2019. Un numero di cui si parla molto di più rispetto al punteggio, di solito tema centrale di una partita di qualsiasi sport.

Italia-Galles è finita 15-26 e, all’Olimpico di Roma, gli spettatori sono stati 38.700, di cui circa 5.000 gallesi, calati nella Capitale per un week end di dolce vita e dolce clima: è il dato di pubblico più basso da quando l’Italia del rugby ha iniziato a giocare in questo stadio, nel 2012. Da allora, troppe sconfitte: c’è poco da fare.

La fine di quello che era stato definito, a ragione, come “miracolo”, cioè il grande seguito della Nazionale ovale nonostante i non esaltanti risultati, si era vista già a novembre durante i test match, con numeri di pubblico in calo e con l’atmosfera, oltre al risultato, di ITA-NZL.

Il 6 Nazioni è un grande evento sportivo, che investe in egual misura l’aspetto sportivo e quello di marketing, ancora di più in Italia, dove l’ovale nazionale, inteso come campionati e squadre, è del tutto ignoto ai più: una volta l’anno, su qualche giornale e sito non specializzato e in alcuni spot pubblicitari, spuntano nozioni ed immagini di rugby, con il trionfale annuncio degli “Azzurri in campo nel 6 Nazioni” e relativo corollario di terzo tempo, birra, tutti amici, etc etc.

Benissimo. Ma… “tanto l’Italia non vince mai!” sentito da colleghi, amici, tassisti, parenti e conoscenti è un qualcosa che tutti conosciamo fin troppo bene.

Il 6 Nazioni diventa dunque un’arma a doppio taglio: si vende come evento di grande rilievo, quale è, ma questo fa anche sì che, in quanto unica “cosa” di rugby che esce dalla ristretta cerchia di praticanti e appassionati abituali, un pubblico più vasto ne senta parlare ma, quello di cui sente parlare durante quel mese e mezzo ogni anno, sono tante sconfitte.

E così, alla fine, è successo: solo 38.700 persone, circa 33.700 al netto dei gallesi in trasferta. Perché sì il terzo tempo, la festa, le foto con i tifosi avversari tutti colorati e pittoreschi, il week end a Roma e tutto quanto, ma uno che va allo stadio vorrebbe anche veder vincere. Anzi, ci va se spera di poter vedere vincere. Soprattutto se è uno spettatore occasionale, uno che non segue il rugby con costanza ma passa con piacere un pomeriggio allo stadio, a vedere qualcosa che non sia calcio, quando c’è il 6 Nazioni.

Ecco, qui si è rotto il giocattolo, insieme al miracolo: tanta gente ha perso le speranze di vedere l’Italia vincere, ha imparato a dare per scontato che l’Italia perderà. E se ne sta a casa.

L’erosione ha infine raggiunto anche la pazienza e la passione di chi il rugby lo vive tutto l’anno e tutta la vita e, così, anche tantissimi che non avevano e non avrebbero mai mancato l’appuntamento, si guardano le partite dell’Italia in tv, comodi, gratis e incazzandosi magari un filino meno. E questa è la cosa veramente drammatica.

Il Flaminio era diventato piccolo, ma l’Olimpico ora è diventato enorme.

Tutto questo non è aiutato, come viene sempre più messo in evidenza, neanche dall’impianto: lo stadio ha la pista per l’atletica e le curve che si sviluppano “in orizzontale”, lontanissime dal campo. Insomma, la visuale non è ideale e arriva fino ad essere pessima in curva.

Citatissimi, come altro fattore importante nella questione dei 38.700 spettatori, sono i prezzi dei biglietti: vedere l’Italia del rugby non è economico e i prezzi sembrano inevitabilmente diventare giganteschi con il peso delle sconfitte, e con i problemi di visuale di cui sopra.

Nelle altre cinque nazioni i biglietti costano, a dire il vero, assai di più, ma gli stadi sono migliori, alcuni sono dei veri templi del rugby (insomma, dei Maracanà dell’ovale) e lì si può contare su delle fondamenta di tradizione, diffusione e organicità (intesa come il percepire un rugby nazionale nel suo “tutto”) ben diverse e su una percezione completamente diversa dell’evento-partita di rugby. Chi non ha mai detto o non ha mai sentito dire “vorrei tanto andare a vedere una partita in Galles o in Irlanda o in Scozia, ma non contro l’Italia!” oppure “voglio andare a Twickenham!”?

Che fare? La tradizione si costruisce in decenni e secoli, ma le vittorie, con cui si fa anche la tradizione, vanno costruite giorno dopo giorno e partendo da assai lontano dal prato e dal terzo tempo dell’Olimpico.

Il rugby da noi è di fatto uno sport minore, mentre il 6 Nazioni è un torneo maggiore, nato per quattro, diventato per cinque e poi allargato a sei. Mai come quest’anno, ci sembra di guardare un 5+1 Nazioni, e fa malissimo: 30.000 seggiolini vuoti lo gridano forte.

Le donne sono convinte che partorire sia il dolore più intenso solo perché non hanno mai visto perdere la loro squadra nel Sei Nazioni. (Detto inglese)