Oggi, 28 giugno 2019, alle ore 9.37 (mi torna in mente il telefilm “ER”: “ora del decesso: 9.37”, avrebbero detto Il Dott. Carter, o il Dott. Ross o il Dott. “Ciccio”), un’implosione da manuale ha tirato giù le pile 10 e 11 del ponte Morandi, a Genova. Ora del viadotto resta in piedi molto poco, dopo il crollo del 14 agosto 2018 e la demolizione di oggi.
Vivo a Genova ormai da tredici anni e mezzo, abito nel ponente della città e, quindi, sul viadotto ci sono passata centinaia e centinaia di volte, anche perché era anche la mia via per andare e tornare da Recco e dunque dal campo della “mia” Pro Recco Rugby. Non sono quindi genovese di nascita e non ho ricordi d’infanzia che mi leghino al Morandi, però ricordo perfettamente quanto quel ponte mi avesse colpita da subito, quando mi sono trasferita.
A dire il vero, due cose mi colpirono subito tantissimo della “viabilità” genovese: il viadotto, con quelle imponenti “A” ed il mare sullo sfondo, ed il fatto che la ferrovia che prendevo ogni giorno per andare al lavoro in centro passasse letteralmente dentro all’ILVA, che allora aveva ancora in piedi tutti i vecchi edifici e questi circondavano letteralmente i binari. Nata e cresciuta in Pianura Padana, nella campagna bergamasca, abituata ad ampi spazi a perdita d’occhio, quel ponte con i monti dietro, le case sotto e attorno ed il mare sullo sfondo, e quella ferrovia letteralmente dentro ad un’acciaieria, mi facevano sentire quasi su un altro pianeta!
Non si può immaginare che un viadotto autostradale cada, senza che ci sia un terremoto, in una mattinata di metà agosto. Ero in ufficio, nel pomeriggio sarei partita per una breve vacanza con una mia amica e collega che era in ferie, nel tragitto fino all’ufficio avevo imprecato per il diluvio che, temperatura a parte, rendeva la città quasi novembrina, con acqua a secchiate e cielo grigio scuro. La mia collega chiama: “Emy ciao, sono all’IKEA con mia mamma e qui dicono che è crollato il ponte…!!!”. Non si può immaginare che cada un viadotto autostradale, quindi io: “ma che ponte???”, pensando ad un qualche ponticello pedonale lì sul Polcevera (ho poi scoperto, guardando un documentario sul crollo, che un poliziotto, ed immagino non solo lui, aveva avuto il mio identico pensiero).
Non si poteva immaginare, ma successe: un viadotto autostradale era venuto giù, senza terremoti, nella mattinata del 14 agosto 2018. Il mondo e il tempo, per ogni genovese di nascita, d’adozione o anche solo di domicilio, si fermarono per un attimo, per ripartire, nel giro di pochi secondi, con gli squilli dei cellulari: grazie a smartphone e social, nel giro di una manciata di minuti era già apparsa sui media “quella” foto, il Morandi con il buco nel mezzo, stagliato su quel cielo grigio che aggiungeva un ulteriore tocco da film ad un’immagine già di per sé incredibile ed allucinante.
Quelle pile rimaste in piedi, ed i pezzi di impalcato a loro attaccati, sono rimaste lì fino a stamattina alle 9.37, testimonianze di una tragedia ma, seppur monche, sempre svettanti con la loro forma di “A” e con gli stralli al posto giusto, nuova versione della presenza del viadotto nel paesaggio, negli occhi e nella mente di chiunque le vedesse. In fondo, seppur crollato in parte e nonostante l’immenso dramma del 14 agosto, il ponte era ancora lì.
Per questo l’implosione di stamattina è stata tanto potente e toccante per ogni abitante di Genova e non solo: adesso, e solo adesso, la sagoma inconfondibile del Morandi, del “ponte di Brooklyn”, non c’è più. Non lo vedrà più chi lo aveva visto costruire, chi lo vedeva dalle finestre di casa, chi lo guardava distrattamente dal treno o dal ponte di Cornigliano, chi lo guardava dall’aereo prima di atterrare a Genova, chi lo percorreva ogni giorno e da lì sopra guardava verso il mare, chi ci passava ogni tanto per andare in vacanza e magari si chiedeva cosa diamine ci facesse una struttura del genere messa proprio lì, in mezzo ad una città.
È praticamente impossibile spiegare Genova a chi non ci vive o non ci ha mai vissuto, la sua conformazione assurda, il mare e i monti, la mancanza di spazio, una ferrovia dentro ad un’acciaieria ed un ponte sopra alle case, ma vista mare. Il “viadotto sul Polcevera” era un po’ il perfetto riassunto di tutto questo, era una vera e propria sintesi della città che lo ha ospitato per poco più di cinquant’anni.
Ci si può affezionare ad un mostro di calcestruzzo e ferro? Evidentemente sì.
“Genova, schiacciata sul mare, sembra cercare respiro al largo, verso l’orizzonte.
Genova, repubblicana di cuore, vento di sale, d’anima forte”.
(Francesco Guccini)
Fantastica, grazie!
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