Il giorno di Santo Stefano sono stata al cinema con la mia mamma a vedere “Bohemian Rhapsody”: nessuna delle due è appassionatissima di cinema e di visioni in sala ma entrambe abbiamo amato Freddie Mercury, i Queen e la loro musica, quindi abbiamo deciso che non potevamo non andare a vedere questo film.
Visto che il titolo di questo piccolo blog è direttamente collegato al rugby, ho cercato di scoprire se Freddie, cresciuto a Londra, lo conoscesse e/o ne fosse appassionato e ho trovato che “Football wasn’t very high on Freddie’s sporting priorities. At school he enjoyed boxing and table tennis, at both of which he was quite proficient. In later life he would enjoy watching tennis on tv with occasional games when he was near a tennis court, and loved watching rugby, as a friend of his was able to fill him in all the pros and cons”. Insomma, a Mr Mercury non interessava il calcio ma piaceva guardare il rugby: ora lo amo ancora di più!
Ricordo di aver pianto disperatamente per la morte di tre sole persone famose, finora: Ayrton Senna, Michael Jackson e Freddie Mercury. Tre uomini carichi e portatori di emozione ed emozioni, tutti e tre quasi divorati dalle stesse, con qualcosa dentro che li faceva etichettare anche come “fuori di testa”, ciascuno a suo modo: Senna per il suo modo di guidare, Jackson per una personalità indubbiamente complessa e Mercury per il suo essere straripante in ogni suo aspetto, un animale da palcoscenico con una vita in balia di sentimenti, tormenti, eccessi e pacificato solo verso la fine della stessa. Tutti, senza dubbio alcuno, con dentro innanzi tutto il fuoco del talento, benedetti da doni destinati a pochi. Tutti morti prestissimo e proprio “per colpa” di questi doni. Fa molto mitologia greca, ma sembra proprio un conto che è stato presentato a tutti e tre per l’enormità che hanno avuto in dono, per gli “effetti collaterali” di tanto talento, tanta personalità, tanto tutto. Troppo tutto.
“Bohemian Rhapsody” è sicuramente un film di emozione ed emozioni e trasporta da subito chi lo guarda nella meraviglia degli anni ’70, in una semplicità lontana galassie dal mondo di oggi, in un universo in cui i Queen stavano seduti a pranzo nella casa e tra le orride carte da parati di una famiglia di origine indiana ed in cui, durante questo pranzo, suona il telefono, quello fisso, grosso, con la cornetta, per comunicare che la band partirà per un tour in America, e poi, naturalmente, dentro all’universo, oltre che dei Queen e della nascita dei loro primi enormi successi, di quell’essere quasi mitologico che risponde al nome d’arte di Freddie Mercury.
In tempi di talent show, social network e musica usa e getta, vedere una rock band leggendaria che registra un album monumentale (A Night at the Opera) in una fattoria gallese riconvertita a studio e Freddie Mercury chiamare casa da ogni punto del globo con telefoni a muro per salutare i suoi gatti non è solo un viaggio nel tempo, ma un vero viaggio intergalattico. Così come riesce quasi a stordire l’elenco degli artisti che si sono esibiti al Live Aid il 13 luglio 1985. Erano anni in cui tutto sembrava possibile e ci si credeva tanto.
Quando il film è finito, sui titoli di coda sono partite le note della canzone dei Queen che da sempre preferisco, “Don’t Stop Me Now”, quindi siamo rimaste ancora sedute, ovviamente lacrimando copiosamente, mentre gli altri uscivano dalla sala. Quando stavamo per alzarci, è iniziata “The Show Must Go On”, IL finale perfetto, e ci siamo alzate dalle poltrone solo quando la canzone stava finendo e mentre una delle ragazze del cinema stava pulendo la sala, cantando anche lei a squarciagola
Fairy tales of yesterday will grow but never die
I can fly my friends
The show must go on
I’ll face it with a grin
I’m never giving in
On with the show”.
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