Come primo post di questo mio nuovo blog, ho pensato di riesumare un mio scritto di febbraio 2018 dedicato al 6 Nazioni e, in particolare, al sentire che quel torneo e quel particolare periodo dell’anno generano in me in quanto appassionata di rugby che vive in Italia, cioè in un paese dove la palla ovale è un universo relativamente piccolo, a volte percepito come minuscolo. Dunque, mi cito da sola!
Ora siamo in periodo di test match autunnali che, per appassionati in perenne astinenza da rugby che vada oltre i club, non sono certo paragonabili al 6 Nazioni ma portano comunque quel saporino di week end davanti alla tv o altri schermi (non dubito di trattare abbondantemente in seguito il tema del “dove si vedono le partite di rugby?”) oppure, per qualcuno, allo stadio, con tutto il contorno annesso e le reunion con amici sparsi per l’Italia.
N.B. La mug di Nigel Owens e le patatine 1936 sono presenze imprescindibili di ogni mia visione di rugby da casa, indipendentemente dalla categoria e dal livello della partita sullo schermo.
Ecco quindi “L’attesa del 6 Nazioni è essa stessa il 6 Nazioni”:
” I divertenti post su facebook di una lontana, cara e decennale amica ovale mi hanno istantaneamente proiettata nell’universo 6 Nazioni e, subito, mi è venuta in mente quella che è la mia immagine, intesa come immagine di me, legata a questo mese e mezzo che, ogni anno, è per gli appassionati di rugby una sorta di prolungata festività, tipo un matrimonio indiano.
È difficile spiegare a chi non segue il rugby che cosa vuol dire il 6 Nazioni per chi è appassionato e, ancora di più, per chi lo è in Italia. Siamo pochi, durante il resto dell’anno il nostro sport è praticamente invisibile sui media non specializzati, in tv ormai si vede poco e niente, trovare qualcuno con cui parlare di rugby, al di fuori del piccolissimo mondo del club, del campo o del campionato nazionale che si segue, è più difficile che capire il verso del riporto di Trump.
Quello che sta per iniziare sarà il mio settimo 6 Nazioni da volontaria, quindi seguo l’evento anche sul campo (quasi letteralmente!) però, la prima immagine che io associo a me e al 6 Nazioni rimane sempre quella di casa mia, il divano, la tv accesa, la mug di Nigel Owens con il the, e la luce sonnacchiosa del sabato pomeriggio di febbraio-inizio marzo.
Tv accesa, cellulare in mano, partite e commenti live su facebook, post e scambi con i tanti amici e contatti appassionati. Perché, in quei pomeriggi, guardando le partite, ci avviciniamo tutti, da tutti i divani sparsi per l’Italia e al di fuori di essa, ci sentiamo tutti vicini in quel piccolo mondo che, di solito, è ancora più piccolo ma anche immensamente sparso, perché è solo al 6 Nazioni che veramente tutti stiamo guardando, in contemporanea, lo stesso rugby.
E trovo fantastico che questo esuli dalle sole partite dell’Italia e dai suoi risultati, dal tifo nazionale, dall’Azzurro: i sabati sul divano, per un paio di week end con appendice anche alla domenica, sono maratone, con orari ben scanditi all’interno dei quali si inseriscono il resto della vita e degli impegni, ovviamente rigorosamente prima della prima partita, tra una e l’altra se non sono immediatamente di seguito e dopo l’ultima. Tutti sui nostri divani, da soli, con cani e gatti, con la famiglia, con amici, tutti davanti alla tv, sapendo che siamo in tanti e che, finalmente, possiamo parlare della stessa cosa sapendo di essere capiti e di poterci confrontare, come se fossimo tutti sullo stesso enorme divano.
Quando il 6N finisce, è tristezza vera. Proprio una cosa da “si spengono le luci”, la fine di un mese e mezzo prima di attesa, poi di appuntamenti, di vicinanza virtuale che sembra vera, di atmosfera, di condivisione, di rugby. E si inizia il conto alla rovescia per l’anno dopo, perché l’attesa del 6 Nazioni è essa stessa il 6 Nazioni.
Buon 6N a tutti!”
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